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‘L’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità’

“Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato”. Così scrive Tiziano Terzani in un volumetto che ho riletto in questi giorni: Lettere contro la guerra, Milano: Longanesi, 2002. Un libro che consiglio di leggere o rileggere a chi s’interroga su quanto sta accadendo da quelle parti. E, in sintonia con il pensiero dell’autore, ho seguito le fasi cruciali della presa di Kabul su aljazeera.com, in mancanza di meglio, e non su altre emittenti globali.

Mentre i capi talebani rispondevano al telecronista, munito di regolare giubbotto antiproiettile, mi sono chiesto chi e che cosa mai rappresentasse il quadro che troneggiava alle loro spalle, dietro all’enorme scrivania dell’ufficio presidenziale. Mi ha illuminato qualche giorno fa il post di un architetto e divulgatore genovese che mi onora della sua amicizia social, Alessandro Ravera. Si tratta dell’incoronazione di Ahmad Khān Abdālī, avvenuta a Kandahar nel 1747, il capostipite della dinastia Durrānī che regnò in Afghanistan fino al 1826.

Durante la Jirga, il derviscio Saber Shah incorona Ahmed Khan – nato forse a Herat, in Afghanistan, o forse a Multan, oggi in Pakistan, ma allora parte dell’impero Moghul – con una spiga di grano intrecciata in guisa di corona. È il presagio di una carriera gloriosa e luminosa che lo porterà a guidare un impero. Il quadro è opera di Abdul Ghafoor Breshna (1907-1974), l’artista laureato degli afghani, pittore e poeta, musicista e regista, che immortalò l’evento in diverse versioni.

Nella prima, quella datata 1943 che troviamo su Wikipedia, la scena si svolge in un elegante giardino. Sullo sfondo, appoggiata alla balaustra, c’è una donna che guarda affascinata in mezzo a un turbinio di pacifiche colombe. Nella versione del palazzo presidenziale di Kabul, più recente e forse influenzato dal realismo socialista, la scena si svolge in un deserto polveroso davanti a un pubblico completamente maschile, tutti maschi per di più in abiti tradizionali, assai diversi dalle eleganti divise English style della prima tela.

Certamente, quel quadro non è stato scelto dai talebani per la loro prima uscita pubblica sui media internazionali, dato che fa da sfondo anche a una delle foto ufficiali dell’ex-presidente Ghani. Era lì e lì è rimasto, in quel frangente un po’ convulso. Mentre alcuni miliziani ripregavano accuratamente le bandiere della repubblica afgana che decoravano ogni angolo del palazzo, nessuno di loro aveva pensato di rimuovere la principale e solitaria tela di sfondo. Un indizio di continuità, involontario o meno?

Ahmad Khan viene considerato il fondatore del moderno stato dell’Afghanistan. Nel giro di pochi anni estese il suo controllo dal Khorasan a ovest al Kashmir e all’India settentrionale a est, e dall’Amu Darya a nord fino al Mar Arabico a sud. Fu anche un poeta, sia nella nativa lingua Pashto sia in persiano. Nel poema più noto, una ode intitolata L’amore per una nazione, egli scrive, rivolto al proprio paese: “se devo scegliere tra il mondo e te, non esiterò a rivendicare come miei i tuoi aridi deserti”.

Per la generazione hippie, il Grand Tour iniziava a Istanbul e passava da Herat, Kandahar o Mazar-i-Sharif, Kabul. E, nel corso degli ultimi vent’anni, mi sono spesso chiesto se qualcuno tra i più attempati dei generali occidentali che hanno guidato l’avventura afgana avesse fatto quel viaggio in gioventù.

“L’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza delle armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi” (Tiziano Terzani, Lettera contro la guerra).