Secondo molti esperti la pandemia ha ridefinito le priorità delle persone che non sempre accettano di lavorare alle stesse condizioni di prima. Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia ed Ungheria sono tutte alle prese con lo stesso problema. Ristorazione e logistica i settori più colpiti. E le buste paga iniziano a crescere
Si stanno scervellando per capire cosa stia succedendo nel mercato del lavoro. Perché per molti esperti ancora non è ben chiaro come sia possibile che, mentre ci sono milioni di persone in cerca di un impiego e i livelli di occupazione sono ancora sotto ai livelli pre-pandemia, in tutti i paesi economicamente avanzati le imprese denuncino gravi carenze di manodopera. Negli Stati Uniti, 10 milioni di persone cercano un impiego. E le aziende non riescono a chiudere 8 milioni di posizioni aperte. Una risposta l’ha data il premio Nobel Paul Krugman che sul New York Times ha scritto un editoriale dal titolo “I lavoratori non sono più disposti a fare il lavoro di prima alle stesse condizioni di prima”. È una parte di verità ma forse non tutta la verità.
In Australia mancano i minatori, in Tasmania i coltivatori di frutta. In Canada il tema è al centro della campagna elettorale, con slogan che suonano quasi surreali: “Non abbiamo bisogno di creare posti di lavoro, abbiamo bisogno di lavoratori”. In Europa la situazione non cambia molto. Ci sono risultati paradossali come quello ungherese con il paese costretto ad accantonare la sua linea dura contro l’immigrazione per tentare di colmare il gap. Nella sanità, nei servizi di pulizia e nella ristorazione più vuoti che altrove. “I direttori di albergo sono costretti a pulire le camere da soli!” è l’accorato grido di aiuto che viene da Tamás Flesch, capo dell’associazione ungherese di hotel e ristoranti. Il paese denuncia una carenza anche di lavoratori per l’industria e nell’agricoltura, con il rischio che parte dei raccolti rimanga nei campi. Un problema che interessa diversi paesi dell’Est Europa. Un discorso a sé lo merita la Gran Bretagna dove il problema non solo esiste ma è esacerbato dalla separazione dall’Ue che ha indotto molti lavoratori stranieri a lasciare il paese o accresciuto le difficoltà per rientrarvi.
Nell’intera Unione europea la disoccupazione supera il 7%, ancora un punto percentuale sopra i valori pre-pandemia. In Germania la forza lavoro complessiva si è contratta di 150mila unità, anche per ragioni demografiche. L’Agenzia federale del lavoro ritiene che al paese servano almeno 400mila ingressi l’anno per colmare la carenza di manodopera, circa il doppio rispetto agli arrivi dell’ultimo anno. Mancano soprattutto lavoratori con competenze nel settore della logistica e della sanità. Pochi giorni fa la stessa Agenzia ha siglato un accordo con l’Indonesia per assicurarsi un flusso di infermiere provenienti dal paese asiatico a cui viene garantito un impiego e un percorso di inserimento.
Situazione non troppo diversa in Francia, durante i mesi estivi oltre 2 imprese su 5 hanno denunciato problemi di organici sottodimensionati. Nelle costruzioni addirittura una ogni due. Eppure i disoccupati nel paese sono quasi due milioni e mezzo. Tra i comparti più in difficoltà ci sono la ristorazione e le terme e spa dove resta vuoto un posto ogni cinque. Quando bar e ristoranti hanno chiuso per il Covid molti lavoratori hanno deciso di cambiare strada e cercare nuove opportunità professionali. “Nei mesi di lockdown di bar, alberghi e ristoranti molti membri degli staff hanno riscoperto il valore di una vita in famiglia, di una vita normale. La pandemia ha ridefinito le priorità e ora cercano altri tipi di lavoro”, ha spiegato candidamente al settimanale Economist, Julia Rosseau, responsabile delle risorse umane della società di consulenza Étique. È successo in Francia, è successo altrove. Negli Stati Uniti un dipendente ogni tre sotto i 40 anni ha valutato la possibilità di cambiare lavoro e, contestualmente, sono esplose le denunce di avvio di nuove attività. Non sempre è la ricerca di una nuova vita con l’ottimismo che l’accompagna. Il 40% dei lavoratori in smart working ha sperimentato condizioni di “burnout”, una sorta di saturazione psicologica da lavoro, che non di rado è sfociata in depressione e in un progressivo allontanamento dalla vecchia occupazione.
Esperti ed osservatori scrivono che la pandemia ha ricordato alle persone che la vita è breve e che lavorare tanto e male e per salari bassi, non sempre è la scelta migliore. O che quantomeno si può provare a scoprire se esistano delle alternative. Non è un caso che le maggiori difficoltà di reperimento di manodopera si registrino in settori dove i contratti sono più poveri e più instabili: logistica, ristorazione, nettezza urbana. Dopo la “scossa” le persone chiedono condizioni migliori, più flessibilità negli orari e/o salari più adeguati. Se questo avviene in maniera inconsapevolmente coordinata su larga scala il manico del coltello passa, almeno temporaneamente, nelle mani dei lavoratori. È quasi come se la pandemia stesse agendo come un unico sindacato globale che coordina le richieste.
Già i salari: parola che gli imprenditori, pur a corto di dipendenti, faticano a pronunciare. Qualche economista prova a far timidamente notare che alzarli sarebbe il modo più rapido ed efficace per risolvere il problema. A ricordarlo sono anche i politici. Non c’è solo l’ormai celebre “Pay them more!” di Joe Biden: pure il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha suggerito che ritoccare gli stipendi potrebbe essere d’aiuto. Qualcosa si muove, in Ungheria le buste paga nell’industria sono salite in media del 9% rispetto ad un anno fa. Dal canto loro, non solo in Italia, gli imprenditori se la prendono con i sussidi di disoccupazione che sarebbero troppo alti inducendo le persone a restare a casa. Una teoria che però trova pochi riscontri nella pratica e sembra basata più su pregiudizi che su dati di fatto. La svolta è più decisa, il riassestamento del mercato del lavoro più profondo.
L’editorialista del Financial Times Martin Sandbu ha scritto di recente che la vecchia espressione “lotta di classe” sembra tornata al centro del confronto tra imprenditori e manodopera, almeno in alcuni settori. Un ritorno che potrebbe preludere ad un’inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto negli ultimi quarant’anni, ossia una progressiva riduzione del peso dei salari rispetto al valore dell’economia. Nel 2000 la quota di profitti delle aziende statunitensi quotate in rapporto alle buste paga era in media del 20%, ora supera il 30%. L’incidenza del costo del lavoro si è ridotto, in tutti i paesi occidentali, dal 65% del Pil del 1970 all’attuale 59%.
Lo stesso Sandbu ha messo anche in luce come la carenza di manodopera stia stimolando livelli di produttività più elevati, poiché le imprese sono costrette a fare di più con meno, a ricorrere a tecnologie per il risparmio del lavoro e ad investire di più nei propri dipendenti. Non tutto il male viene per nuocere.