A Pedro Almodovar lascia raccontare storie al femminile, di maternità e di famiglia, che è meglio. Comincia con andazzo flamboyant, scambio di culle e una ferita storico politica non rimarginata la 78esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Madres paralelas, in Concorso per il Leone d’oro 2021, è la zampata del vecchio leone spagnolo perdutosi negli ultimi anni in operazioni fiacche e muffe (Dolor y gloria, Gli amanti passeggeri), oggi ritrovatosi in forma smagliante al Lido, dove 33 anni fa portò Donne sull’orlo di una crisi di nervi e addirittura nel 1983 L’indiscreto fascino del peccato. Siamo a Madrid nel 2016. La quarantenne single e fotografa Janis (Penelope Cruz) rimane incinta dopo il fugace incontro con il fascinoso antropologo forense incontrato su un set letterario e con il quale ha cercato di accordarsi per la riesumazione dei cadaveri di suoi familiari uccisi, sepolti e dimenticati durante la Guerra Civile spagnola.
Pista apparentemente falsa, quella del buon Pedro. O meglio pista narrativa ampia, ellittica, quella della “memoria storica” negata per decenni alla caduta del franchismo, poi trattata in punta di decreto dal socialista Zapatero poi rigettata (“non userò mai un euro pubblico per queste riesumazioni”) dal recente premier popolare Rajoy (citato nel film ndr). In tutto questo evocare spettri del passato eccoci rapidi dinanzi a Janis in ospedale che sta per partorire, in camera con un’altra partoriente, la minorenne Ana (Milena Smit, tutta da guardare e seguire). Tutto sembra andare per il meglio, le due donne tornano a casa con le rispettive neonate, ma la sorte antica, ultramelò, sgargiante e tragica di un distratto errore infermieristico mescolerà le carte delle due protagoniste negli anni successivi, tra tamponi di DNA e scene d’amore lesbico, fino a ritrovarle sull’orlo di una fossa comune zeppa di scheletri a fare i conti con la storia.
Madres paralelas ha sì una sorta di rispecchiamento filosofico, culturale, umano speculare tra Janis e Ana, qualcosa che visivamente (come nei migliori Almodovar) va oltre il banale campo e controcampo per giungere a quell’inquadratura comprensiva di entrambe, una a ridosso del bordo del quadro una all’opposto a ridosso dell’altro, avvinghiate con un oggettiva dall’alto, corpo e mente saldati e fragili, simulacro di un tempo al femminile che pare ribollire e affermarsi in questo presente incerto come è raro incontrare anche nel cinema più femminista e militante. E badate bene, a parte il solidale antropologo, giusto un povero incidentale spermatozoo nella catena riproduttiva, Madres Paralelas è una sinfonia superba e ritmata, elegante e popolare, altolocata e popolana (Ana è figlia un po’ ribelle di signori ricchissimi, Janis ha il parentado disperso tra poveri paesini) abitata esclusivamente da donne, anzi da madri. Pedro ha spiegato che sono “madri imperfette”, contrariamente alle sua auguste e autobiografiche madri, vicine, levatrici.
Anche se è proprio in questa fluttuante e fluida imperfezione (Penelope bisex, tra i tanti dettagli “sfuggenti” è tutta da scoprire) che Madres paralelas costruisce il suo essere dannatamente e sgarbatamente cinema. E poi lasciatecelo dire: ma quando Almodovar ha in mano caratteri femminili così scavati e forti (a noi piace su tutte nel suo vivido cinismo la madre di Ana – Aitana Sanchez-Gijon – che rinuncia a fare da nonna per una tournée teatrale) sembra come vibrare di profondo senso sociale e politico. Il regista spagnolo è uno dei pochi a riuscire a mescolare, come andassero letti sullo stesso piano del discorso, senza snobismo e forzature, l’aperitivo di classe e la sudata stiratina con colpo di ferro in cucina; la fotografia patinata dei marchi di moda con il grezzo taglio rurale da pueblo, la felpa fluo di Ana e il vetusto push-up di Janis. Che bell’Almodovar, insomma. E se lo diciamo noi vuol dire che Madres Paralelas è davvero un buon film.