Il cameraman cammina velocemente all’indietro per non perdere l’inquadratura. Al centro dell’obiettivo c’è un uomo con gli occhi coperti da pollice e indice. Avanza con passo incerto. Un piede davanti all’altro. Un sospiro dopo l’altro. Ha una maglietta azzurra con un numero dieci bianco appiccicato all’altezza dello sterno. E ha il viso solcato da un torrente di lacrime. Anche se i suoi due gol hanno piegato la Bulgaria e hanno regalato all’Italia la finale del Mondiale americano. Gioia che non riesce a stemperare la paura, acqua dolce che non riesce a diluire l’acqua salata. Roberto Baggio cammina sul prato verde del Giants Stadium di East Rutherford. Un terreno che si porta dietro una bugia. Nato per il football, concesso in prestito al soccer. Senza entusiasmo, ma con sopportazione. Gigi Riva abbraccia Baggio come a proteggerlo. Gli passa una mano fra i capelli, gli sussurra qualcosa all’orecchio, sembra quasi non volerlo lasciare andare. Perché il timore del dieci è il timore di un Paese intero.
Il sole spietato del New Jersey ha sbiadito un sogno fino a farlo diventare incubo. L’uomo che ha trascinato l’Italia in finale ora rischia di non giocare quella partita. Al 26′ del secondo tempo Baggio è defilato sulla destra dell’area di rigore. La voce di Bruno Pizzul è accelerata dalla speranza. “Dentro il pallone per Roberto”, dice. “In piena area di rigore Roberto cerca spazio e viene fermato stavolta da Zvetanov“, annuncia rassegnato. Il problema è che subito dopo Baggio resta fermo immobile. Si porta le mani sulle cosce, allunga la testa in avanti, increspa le labbra in una smorfia di dolore. Ha sentito una puntura poco sopra il ginocchio. Sa già cosa vuol dire. Potrebbe essere una contrattura. Potrebbe essere tutto finito. Niente finale. Niente titolo mondiale. Niente Pallone d’Oro. L’uomo con il dieci sulle spalle si avvicina alla panchina azzurra. Prova a farsi massaggiare. Prova a continuare la partita. Ma è rischioso. Troppo. Alla fine Sacchi si volta alla panchina e ordina a Signori di alzarsi. Non è ancora l’era dei tabelloni luminosi. Così il quarto uomo stringe fra le mani due cartelli di plastica. Su quello rosso c’è il numero 10. Su quello verde il numero 20. Baggio esce dal campo e strofina la faccia contro la spalla di Sacchi. È un gesto istintivo, quasi fanciullesco. E proprio per questo fa discutere.
Negli ultimi giorni i rapporti fra i due sono stati molto tesi. Arrigo è un uomo sotto assedio. La squadra non gioca bene. E non perdono occasione per farglielo notare. I quotidiani pubblicano sondaggi. Chiedono ai tifosi di schierarsi a favore o contro il tecnico. Ma non di motivare le proprie scelte. Il ct non unisce, divide. La stampa, i giocatori, l’opinione pubblica. Ogni volta che vince, si tira in ballo la fortuna. Una credenza che diventa sentimento diffuso, un pensiero che qualche mese più tardi Gene Gnocchi sintetizzerà in un libro intitolato “Il culo di Sacchi”. Quattro giorni prima l’Italia aveva battuto la Spagna nei quarti di finale. Senza brillare. Senza incantare. Un successo che era stato un inno a un cognome: Baggio. Vantaggio di Dino. Raddoppio di Roberto. Gli Stati Uniti avevano iniziato a familiarizzare con quel calciatore col Codino. Tanto che durante il G7 di Napoli Hillary Clinton aveva chiesto lumi su Roberto. Il problema è proprio questo. Un singolo che diventa più grande del collettivo. E che si schiera apertamente contro il proprio allenatore.
“Sacchi ha le proprie idee – dice Baggio dopo il successo sulla Spagna – ma non sempre collimano con le mie. Io credo che non sia questo il Mondiale in cui si può correre a mille all’ora per novanta minuti come stiamo facendo. Bisogna correre quando serve e l’esempio ce lo offrono i brasiliani. Loro fanno viaggiare la palla e non si stancano. Tutti quelli che giocavano sulla velocità sono già tornati a casa. In quattro anni il calcio è cambiato. Il contropiede paga di più”. Non è una intervista. È un candelotto di dinamite piazzato sulla schiena del cittì. D’altra parte lo diceva anche Chuck Palahniuk in Ninna Nanna: “Pietre e bastoni ti rompono le ossa, ma occhio a quelle cazzo di parole”. Baggio impallina difese avversarie e allenatori alleati con la stessa facilità. Le sue dichiarazioni diventano incendiarie. E si prendono colonne intere sui giornali. Si dice contento per i gol ma non per le sue prestazioni. Perché lui si sente un giocatore totale mentre ora si è limitato solo a segnare. Per Baggio è un problema. Per tutti gli altri sarebbe l’aspirazione massima. Solo che al Codino non basta. Lui deve illuminare, deve trovare corridoi, disegnare parabole, aggiungere bellezza. La figura di Sacchi si disgrega. Da mentore ad antagonista. Tutto in neanche un mese. Arrigo si presenta davanti ai microfoni e annaspa. Deve dissimulare. Deve imporsi. Così attacca i nemici esterni e si coccola quegli interni.
“Più il gioco si fa duro, più pesa la critica – dice il commissario tecnico – Se sono arrivato sin qui, lo devo anche a voi: alle vostre flebo di critiche, ai vostri messaggi strillati. Perché chiedete solo a me di snaturare il mio gioco e non al Brasile di cambiare il suo?”. E ancora: “Io e Roberto ci stimiamo molto, ci confrontiamo ogni giorno. Il caso Baggio non esiste. Roberto ha ragione: bisogna correre bene. E per correre bene, bisogna essere organizzati. Ah Robertino, Robertino. Fra noi, c’è un’uniformità di vedute, e di intenti, che quasi quasi, lo dico? Non lo dico? Mi commuove”. Il New York Times prende in simpatia gli azzurri. Paragona Sacchi a Fellini, la Nazionale al bastimento de E la nave va, una squadra che è “uno zibaldone di esilaranti sbandate ed eroiche impennate”, qualunque cosa voglia dire. Ma racconta anche il Baggio Express, il treno che ha portato l’Italia a giocarsi la semifinale. Il dato è curioso. E anche un po’ preoccupante. Dei sei gol azzurri, cinque vengono dai Baggio. Tre da Roberto. Due da Dino. Il secondo è l’opposto del primo. Ne condivide il cognome ma non il talento. Vive di luce riflessa. Non deve schivare giornalisti. Qualcuno lo definisce lo spazzino del centrocampo azzurro. Altri lo chiamano il frangiflutti della Nazionale. Altri ancora lo liquidano con un asettico Baggiodue. Tutti però sperano di rivedere sulla sua faccia l’urlo che fu di Tardelli. Dino è schivo, riservato, indecifrabile. Per mesi interi si è rifiutato di svelare il lavoro di suo padre. Durante il giorno si attacca al telefono e inizia a comporre numeri. Chiama i genitori. Gli amici. Il suo procuratore. Ma soprattutto, al contrario di Roberto, è totalmente schierato con il commissario tecnico, che qualche tempo prima gli aveva appiccicato sulla schiena il nomignolo di RijkaarDino.
“Sacchi è stato il primo a capire quale fosse il mio ruolo ideale, soltanto qui ho giocato da centrocampista come piace a me. Ed è grazie a questo che ora sto vivendo l’esperienza più importante della mia vita”. Un elogio che contiene una critica neanche troppo velata: “Trapattoni voleva farmi fare il terzino, con lui non ho mai avuto un rapporto facile”. A ricompattare gli azzurri ci pensa l’ultimo quarto di finale. La Bulgaria batte la Germania. Perdeva 1-0. Si impone 1-2. Tutto in tre minuti. Grazie al gol di Stoichkov. Grazie alla rete di Letchkov. È un risultato che fa rumore. E anche parecchio. Eppure in molti tirano un sospiro di sollievo. La Stampa tira fuori nuovamente la fortuna di Sacchi: “La Bulgaria ora troverà il modo di autoeliminarsi con una serie di infortuni che colpiranno Stoichkov, Kostadinov e persino il pelato Letchkov”. I bulgari vengono visti come il tocco esotico del Mondiale, una simpatica canaglia che ora non è più così simpatica. Anche se ha battuto l’Argentina. Anche se ha travolto i campioni del mondo in carica. L’albergo della squadra è invaso da giornalisti a caccia di qualche aneddoto curioso da dare in pasto ai lettori. Ma anche da cileni e costaricani. Sono lì per una convention di filosofi che si sta svolgendo a Princeton. E si muovono con disagio fra le telecamere e microfoni. La stampa italiana trasforma tutto in barzelletta.
I calciatori bulgari vengono chiamati zingari. L’alopecia di Letchkov diventa barzelletta. Alla vigilia della partita la Nazionale inizia a ballare intorno al suo totem. Si chiama Hristo Stoichkov e in quattro anni con il Barcellona ha vinto tutto. In Spagna. In Europa. Segna un gol dietro l’altro. E ai Mondiali ha già gonfiato la rete cinque volte. L’attaccante è un po’ leader e un po’ ventriloquo. Se lui dice che l’Italia non è invincibile i suoi compagni ripetono che l’Italia non è invincibile. Se lui dice che gli azzurri dovranno fare i conti con una pressione che rischia di schiacciarli, i suoi compagni ripetono che gli azzurri dovranno fare i conti con una pressione che rischia di schiacciarli. Perché Stoichkov è molto più del capitano. È il tentativo di negare quella frase di Eugenio Montale che dice: “Non si può essere un grande poeta bulgaro”. Il giorno prima della partita Hristo incontra la stampa e veste i panni del santone. Tutto quello che dice si trasforma in oro. Le sue parole grattugiano i nervi degli azzurri. Perché sono vere. “Noi non abbiamo niente da perdere, gli italiani invece sono preoccupatissimi – dice – Dunque siamo avvantaggiati. Voi non avete problemi di tattica, ma psicologici sì. E sin qui siete stati fortunati: più fortunati che bravi, anche se Sacchi è un grande allenatore e Roberto Baggio e Massaro sono grandi inventori di gol: la squadra con Nigeria e Spagna è parsa stanca, non so se del vostro campionato o di questo torneo o del caldo, si è salvata per caso”. Per caso. È una frase che rischia di diventare offensiva. Soprattutto se si pensa ai dogmi di Arrigo e alla considerazione che Hristo ha del commissario tecnico della Bulgaria Penev: “Non è un gran tattico, ma la tattica la fanno i giocatori sul campo. Lui però sa tutto di psicologia: ho fatto con lui sei anni al Cska. Poi a cosa servono gli schemi se sei sotto di due gol?”.
Ogni sua frase si trasforma in aforisma. “Già una volta meritavo di vincere il Pallone d’oro ma non ho un presidente potente come voi italiani”, dice. “Hristo vuol dire Cristo. È il nome di mio nonno. Io però non faccio miracoli. Il miracolo è essere vivo, andare avanti. Al massimo faccio il buon sacerdote”, racconta. Un santone con il numero otto tatuato sulle spalle. Sacchi dice che per fermarlo servirebbe la pistola. Lui nel frattempo ha fatto il lavaggio del cervello ai suoi compagni. “Mi sento imbattibile, un portiere deve essere così. So come Baggio tira le punizioni, so anche che può inventare tiri nuovi. So che il portiere italiano si deve preoccupare delle punizioni di Stoichkov”, giura Mihaylov. La partita assume una connotazione mistica. Hristo contro Baggio il buddista. Due divinità del calcio che non ammettono eretici, che pretendono adorazione esclusiva. La messa di quell’assolato 13 luglio dura 21 minuti. Poi il Divin Codino raccoglie palla al limite sinistro dell’area e inizia a correre verso destra, parallelamente alla linea bianca. Salta l’intervento di un difensore. Fa un passo, due passi, tre passi, quattro passi. Apre il destro, mira al palo lontano. È in quel momento che Mihaylov si scopre non così imbattibile. La palla si strofina contro la rete mentre Pizzul deflagra, ma con contegno: “E c’è un grandissimo gol da parte di Roberto Baggio. Strepitoso gol di Roberto Baggio”. L’Italia non sente la pressione. Pattina sul campo, schiaccia gli avversari. In quattro minuti colpisce un palo con Albertini. Poi il centrocampista del Milan lascia partire un passaggio che si infila nella difesa avversaria.
Baggio è spostato sulla destra. Controlla, incrocia, segna. Sacchi si mette a ridere in panchina. “Una grandissima Italia in questo primo tempo”, commenta Pizzul. Il dio del calcio si è preso quello stadio pensato per il football. E parla italiano. A un minuto dalla fine del primo tempo la Bulgaria ha un calcio di rigore. Hristo spiazza Pagliuca. Ma l’aveva detto già il giorno prima. Lui non fa miracoli. Non in quella semifinale. Il risultato non cambierà più. L’Italia ha santificato la sua festa. Almeno fino a metà ripresa. Almeno fino a quando Baggio non sente quella puntura sulla coscia. Ha una contrattura. E si è anche spezzato un canino. Il Divin Codino esce e segue gli ultimi minuti accanto alla panchina. Se ne sta in piedi. Con le mani giunte come in preghiera. Quando l’arbitro dice che la messa è finita scoppia a piangere. Per la gioia. Per la fatica. Per la paura di non esserci in finale. “Ho pianto per tutti i sacrifici che mi è costato e mi costa questo lavoro. Ero molto contento, ho manifestato così la mia felicità”, spiega. “Sono sempre stato forte dentro, non mi sono mai arreso di fronte alle difficoltà. È da quando ho diciotto anni che lotto contro un ginocchio che mi fa disperare. Purtroppo la gente è abituata a giudicare senza conoscere le persone“, aggiunge. Baggio si asciuga le guance, saluta, inizia a pensare a un’altra partita. Si giocherà a Pasadena. Solo che il finale sarà molto più amaro. Per una questione di centimetri. Questa, però, è tutta un’altra storia.