Questi Talebani chi sono? Da dove traggono la forza e la determinazione che hanno permesso loro di sopravvivere prima all’armata sovietica poi agli eserciti Nato? Cosa possiamo aspettarci? Cosa possiamo fare noi?
Ci sono ovviamente tante ragioni per la nascita e l’affermazione del movimento talebano che esulano dalla mia competenza. Ragioni geopolitiche (sovvenzioni da altri Stati in lotta fra loro), economiche (introiti della droga), sociali (società tribale) e religiose (regole che vengono interpretate in diverso modo nel mondo musulmano). In questo post vorrei affrontare una possibile ragione psicologica che tende a sfociare nella sofferenza, per definire la quale il termine corretto è psicopatologica. Un dato incontrovertibile è che le principali società democratiche agli occhi degli abitanti del resto del mondo, dotati di smartphone, presentano una superiorità tecnologica, economica e un conseguente benessere.
Provo a descrivere i sentimenti che, come reazione, si determinano:
1) Emulazione: se loro sono in questa situazione possiamo tentare di raggiungere anche noi lo stesso risultato;
2) Invidia: sono più fortunati di noi;
3) Rivendicazione: non è giusto questo squilibrio mondiale;
4) Rabbia: vorrei distruggerli.
Queste emozioni, provate a livello razionale ma anche e soprattutto in modo inconscio, non sono definite e nitide, ma possono coesistere nella stessa persona in modo magmatico. In alcuni miei pazienti, provenienti da altri paesi, sono presenti e si sono sviluppate negli anni. L’elemento più rilevante è che si può passare da un atteggiamento molto ostile, in cui prevale la rabbia, a fasi di desiderio di confronto, nelle quali domina il sentimento di emulazione. Oppure, viceversa, si può percorrere una china alla cui fine emergono rabbia sorda e rancore incolmabile.
La maggior parte dei commentatori reputa il movimento talebano come essenzialmente costituito da tagliagole assetati di sangue. Fondamentalmente dei “pazzi”, degli “alienati” (persone che vengono da un mondo diverso dal nostro, appunto alieno) verso cui non c’è alcuna possibilità di comprensione. Al di là delle ragioni storiche e politiche che, come ho premesso, non analizzo, ritengo che questi giudizi siano buttati lì per fare audience ed eccitare il telespettatore. Molto più difficoltoso è cercare di capire.
In questi giorni è entrato nella cronaca il Rave party di Viterbo. In queste adunate emerge un rifiuto netto delle regole della civiltà da parte di migliaia di giovani che, pur godendone i benefici, sentono che qualcosa non funziona in un mondo in cui l’unico punto di riferimento è il consumo e la vendita di prodotti. Nel loro modo, certo ambiguo, incoerente e, diciamolo francamente, opportunista e “paraculo” (vivono coi soldi dei genitori e della società che criticano) questi ragazzi esprimono un rifiuto con punte di rancore.
Se fino a un secolo fa i punti di riferimento sociale erano Dio, Patria e Famiglia, nel corso dei decenni molti hanno teorizzato la “morte di Dio” e i nazionalismi coi loro disastri bellici hanno mostrato i limiti delle varie patrie che sono poi state superate dalla globalizzazione. Anche la famiglia se la passa maluccio, se è vero che il 70% delle coppie va incontro a separazione e assistiamo a una continua diminuzione delle nascite. In questo mondo occidentale, senza punti di riferimento solidi cui aggrapparsi (“Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo” affermava Archimede), il Rave party assume il ruolo di sfogo dalla frustrazione. Visto che non si può credere in nulla godiamo oggi senza pensare al domani. “Chi vuol essere lieto sia che del doman non v’è certezza”. Il canto poetico di Lorenzo il Magnifico viene portato all’esasperazione, per cui occorre essere senza pensieri a tutti i costi.
Nel Rave party il tentativo di non avere pensieri viene condotto verso le più estreme conseguenze attraverso l’uso di mix di musica ad altissimi volumi, alcol, droga, sesso occasionale. Il destino umano di “dover sempre tenere acceso il pensiero” anche di notte, tramite i sogni, viene temporaneamente affogato attraverso una serie di stimoli che facilitano il “non pensiero”.
I Talebani, dunque, secondo me sono l’altra faccia della medaglia dei nostri figli occidentali dediti al Rave party. Anche qui è in atto il tentativo di “non pensare”. Ci pensa Dio, chiamato Allah e interpretato da ambigui capi a pensare per noi, a dettare regole e a definire cosa sia giusto o sbagliato. Il giovane talebano esegue ciò che Allah vuole e, apparentemente, non si pone interrogativi o dubbi, per cui anche l’atto più crudele è lecito e lodevole. Sotto cova una rabbia sorda verso l’Occidente che non si può emulare e neanche semplicemente invidiare, ma solo distruggere.
Come conseguenza di questo tentativo di comprensione della psicopatologia del Talebano, che come ho descritto si intreccia con il partecipante al Rave party, deriva la necessità che l’Occidente riscopra un’anima fatta di valori riconosciuti, di una visione sociale e culturale. Il solo consumismo non può essere l’essenza di una società! Solo in questo modo la rabbia del giovane talebano e, di converso, del giovane partecipante al Rave potrà lentamente tramutarsi in rivendicazione, invidia e infine emulazione. L’anima dell’Occidente esiste già ed è incastonata nelle tre parole della rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, fraternità) oltre che nella tradizione millenaria cristiana che si riassume nel comandamento “Ama il prossimo come te stesso”. Dobbiamo tornare a esserne fieri.