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La regista Shahrbanoo Sadat racconta le sue 100 ore allo scalo di Kabul: “Ammassati senza cibo e acqua, intorno a noi sparatorie e cadaveri”

Fino alla mezzanotte del 23 agosto scorso, è rimasta con 20 persone della sua famiglia in balìa degli eventi, sballottata da un check-point all’altro fuori dall’aeroporto diventato l’epicentro della follia afghana dalla metà di agosto in avanti, dopo la presa della capitale da parte dei Talebani. Alla fine, però, è riuscita a salire su un volo che l'ha portata in Francia, ma spera di poter tornare presto nel suo Paese natale

“Per cento ore dentro l’inferno dell’aeroporto di Kabul, sembrava di stare dentro una delle mie pellicole, in un film dell’assurdo. A lungo in attesa nell’area dove pochi giorni dopo i terroristi dell’Isis hanno colpito”. Shahrbanoo Sadat, giovane e apprezzata regista afghana, adesso è in salvo a Parigi, assieme al grosso della sua famiglia, grazie alla diplomazia francese che l’ha strappata a un destino drammatico: fino alla mezzanotte del 23 agosto scorso, Sadat è rimasta in balìa degli eventi, sballottata da un check-point all’altro fuori dall’aeroporto internazionale di Kabul diventato l’epicentro della follia afghana dalla metà di agosto in avanti, dopo la presa della capitale da parte dei Talebani. Ora è ospitata in un centro di accoglienza della capitale francese dove è arrivata con i genitori, la sorella, due nipoti e altri parenti e conoscenti.

Una volta risolti i problemi burocratici si trasferirà ad Amburgo grazie a un visto d’invito ricevuto dalle autorità tedesche: “Sia in Germania che in Francia ho trascorso parte della mia vita lavorativa – spiega Sadat, 30enne di origini Hazara, scappata in Iran con la sua famiglia durante la prima occupazione Talebana alla fine degli Anni 90 e poi rientrata in Afghanistan successivamente – A Cannes ho partecipato al Festival Internazionale del Cinema vincendo una sezione della Quinzaine (nel 2016 con Wolf and Sheep, ndr.), a Berlino ho girato il mio ultimo lungometraggio The Orphanage. L’Europa è la mia seconda casa, ho la produzione in Danimarca ad esempio, ma nonostante ciò negli anni scorsi ero tornata a vivere in Afghanistan, a Kabul avevo appena acquistato un appartamento che ovviamente ho dovuto abbandonare e non so se e quando potrò rientrarci. Vediamo come vanno le cose lì, come si comportano i Talebani. Molti dicono che sono cambiati dal 1996 a oggi, io non credo, ma ripeto, aspettiamo uno-due anni e se ci sono le possibilità sia io che la mia famiglia, originaria della provincia di Bamiyan (quella dei Buddah distrutti nel marzo del 2011 dagli Studenti Coranici, ndr.), torneremo. Proprio ieri mio padre era triste, pensava al suo campo e alla raccolta delle patate. Lui vuole tornare, non penso possa vivere lontano dalla sua terra per troppo tempo. Io, poi, ho ancora le chiavi di quella casa”.

Fino a qui il presente e le prospettive future, ma è il recente passato a scandire dieci giorni di incredibile drammaticità iniziati proprio quando in Italia si festeggiava il Ferragosto. Il racconto della giovane regista è lucidissimo: “È collassato tutto in una notte, il Paese, ma soprattutto la capitale, senza sparare un colpo – Sapevo che prima o poi i Talebani sarebbero arrivati, specie dopo le schermaglie in altre province dell’Afghanistan, ma pensavo che almeno fino a settembre ci sarebbe stato il tempo per organizzare le cose. Mi aspettavo una resistenza dell’esercito afghano, combattimenti, invece in poche ore migliaia di persone erano in strada. Ricordo il mio stupore, immobile, davanti a me i Talebani coi turbanti, sembrava un sogno irreale. Questo accadeva tra il 15 e il 16 agosto scorsi. Da quel momento ho capito che dovevo organizzare la fuga mia, della famiglia e delle persone a me più care. Mi sono attaccata al telefono e per almeno 48 ore sono andata avanti a cercare aiuto. Ho chiamato chiunque potesse darmi una mano, dai mille contatti di lavoro alle diplomazie di mezzo mondo, fino alle agenzie di sicurezza. Nessuno dei miei interlocutori però aveva ben chiaro cosa stesse accadendo e non mi dava ragguagli sul da farsi. Il mio appartamento è diventata la base di decine di persone a me vicine, ma per risolvere la situazione bisognava andare in aeroporto. Quando dall’Ambasciata Usa è arrivata la conferma del visto necessario per l’espatrio per me e gli altri, abbiamo atteso invano che un pick-up ci venisse a prelevare. Così siamo usciti per andare direttamente in aeroporto e capire cosa fare. Era la sera del 19 agosto”.

In quel momento è iniziata la fase più critica. Shahrbanoo Sadat e i suoi parenti, una ventina di persone, sono prima passati attraverso l’area di sosta dell’hotel Baron, la stessa dove pochi giorni dopo l’attacco dell’Isis ha provocato circa 200 vittime. Avvicinarsi ai cancelli d’ingresso dello scalo internazionale era una vera e propria impresa: “Il primo scelto, l’east gate, era un inferno e all’ingresso era in corso una sparatoria – prosegue nel racconto Sadat – Ho mostrato il visto americano ai Talebani di guardia all’entrata e loro mi hanno riso in faccia. Si trattava dello stesso sventolato da migliaia di persone, non sarebbe servito a nulla. L’unico modo per entrare era a bordo dei famosi pick-up che però non erano mai venuti. In quel momento ho odiato gli americani. A quel punto ho capito che dovevo seguire la afghan way, ossia andare a testa bassa, e non più fidandomi delle diplomazie occidentali”.

Le circa 100 ore che hanno cambiato il destino della regista sono partite così: “Nel frattempo arrivavano notifiche per la nostra partenza. C’era un posto per me su un volo verso la Danimarca, ma senza gli altri, poi mi hanno contattata dall’ambasciata francese, c’erano 10 posti. Tuttavia bisognava entrare e lei non può capire il caos attorno allo scalo. Siamo andati verso il check-point a nord e siamo rimasti bloccati in mezzo a una sparatoria dalle 6 di sera alle 10 del mattino successivo, sembrava di stare al fronte. Un altro varco era strapieno e la folla spingeva e continuava ad alimentarsi. Le stesse guardie talebane all’ingresso erano impotenti, un’orda umana che spingeva disperata. Per almeno 14 ore siamo rimasti immobili, in piedi, addossati contro un muro. Io stessa sono svenuta per il caldo, non si riusciva ad avere acqua, cibo e temevo per le sorti dei genitori e dei nipoti piccoli, i figli di mia sorella. Una volta varcato il punto di controllo c’era la coda al gate e così sono passate altre ore, infinite. E dall’interno dello scalo continuavano a portare fuori cadaveri, uccisi da colpi d’arma da fuoco, dalla calca o da malori”. Uno stallo infinito e la resistenza ridotta al lumicino: “Tra un check-point e l’altro le cose sono migliorate – ricorda – Nel frattempo eravamo arrivati al 22 agosto e ricordo l’ingresso nell’area di un camioncino che vendeva cibo. Un mullah talebano mangiava vicino a me, mi sorrideva e con lui ho anche parlato. Una discussione surreale, senza che mi chiedesse di indossare il velo e tantomeno il burqa, cosa che non ho mai fatto. La mattina successiva non era più così sereno, anzi mi ha colpito con un bastone, era violento. Tutti i Talebani sul posto erano tesi, preoccupati dalla notizia secondo cui si stava preparando un attentato. Nonostante l’emozionalità della situazione, grazie ai funzionari francesi siamo riusciti a passare i controlli, l’ultimo al check-point 4 dove siamo rimasti circa 12 ore, fino alla tarda serata del 23 agosto, quando è finalmente arrivato il via libera per salire a bordo dell’aereo partito di notte. Dopo il lungo transito ad Abu Dhabi, il 25 agosto siamo arrivati in Francia”.