Sono ormai cinquant’anni che si continua con questa menata del “radical chic”. L’invenzione verbale di un giornalista americano in bilico tra il damerino e la mezza calzetta – Tom Wolfe, del New York Herald Tribune – con cui nel 1970 volle mettere alla berlina il progressismo snob del celebre direttore d’orchestra Leonard Bernstein, reo di aver organizzato nel suo attico di Manhattan una serata in onore dei ribelli alla moda: il gruppo delle Pantere Nere.

Uno scontro tra titani del presenzialismo esibizionista. Perché, se il musicista di successo amava atteggiarsi a ultra sinistro radical, il cronista di costume dai completini esclusivamente candidi indossati tutto l’anno rivelava una disperata aspirazione allo chic. Insomma due macchiette: l’uno che metteva in scena la caricatura del rivoluzionario per vincere lo spleen, la noia da successo; l’altro a uniformarsi con il suo abbigliamento leccato e inappropriato a un’idea di appartenenza ai quartieri alti immaginati da un parvenu dei quartieri bassi. E l’epiteto che fonde i due termini – “radical” e “chic” – diventava immediatamente, per chi lo attribuiva ad altri, la patente rancorosa di una frustrazione.

Fateci caso: ormai l’addebito fatale lo ritroviamo sistematicamente rivolto a bersagli che si staccano dalla media, dalla mediocrità del mainstream. Dunque, in bocca a persone che si atteggiano al genuino e al popolare proprio in quanto inadeguati; tragicamente consapevoli delle loro personali carenze in materia di gusto e maniere. Carichi di risentimenti verso persone e contesti che mettono impietosamente in evidenza le loro imbarazzanti manchevolezze.

Nel dibattito politico l’addebito si rivolgerà necessariamente contro i disturbatori del luogo comune; le confortanti certezze del banale e dello scontato in cui trovano rifugio gli arrampicatori sociali che sperano di fare carriera in quanto propugnatori del pensiero corrente. Pensiero Unico, di questi tempi in cui il controllo sociale tende sempre di più a esercitarsi attraverso l’omologazione delle rappresentazioni.

Un identikit che si adatta perfettamente alla figura di Roberto Cingolani; questo presunto scienziato e molto impresario di Palazzo, dichiarato “grillino” dal falso profeta confusionista Beppe Grillo, che certamente non è chic con quel suo aspetto trasandato. E in quanto a radical, lo è soltanto nel senso opportunistico di attaccare il carro dove vuole il padrone. Lo ha fatto come direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologie, lo fa ora da ministro della transizione ecologica, da svendere per gratificare l’interesse dei padroni a spremere fino all’ultima goccia le energie fossili e produrre CO2.

Dunque, secondo l’ineffabile, gli ambientalisti sarebbero soltanto degli esecrabili ostentatori della pervicace volontà di andare controcorrente; di pericolosi cacciaballe, le cui denunce rispondono solo a velleità irresponsabili di “fare i fenomeni”. E lo dice mentre le stagioni impazziscono, i contagi falciano milioni di vite umane e l’inquinamento industriale favorisce il diffondersi di varianti virali, i ghiacciai eterni si sciolgono e l’innalzamento dei livelli marini minacciano (per ora) la sopravvivenza delle città costiere. Ma dire il contrario risulta intollerabile per chi trae vantaggi incommensurabili dal mantenimento di una tale situazione sul bordo del precipizio. Ed è pronta a gratificare il negazionismo alla Cingolani. O meglio, la criminale riproposizione dell’argomento capestro, che già tante volte abbiamo visto produrre vere e proprie mattanze, per esempio all’Ilva di Taranto: mettere in contrapposizione la tutela dell’ambiente e la difesa del posto di lavoro in condizioni di indicibile pericolo da inquinamento.

Del resto non è casuale che il ministro Cingolani abbia eseguito la sua scioccante performance anti ambiente in un evento promosso da un altro carrierista scoperto (e maldestro): Matteo Renzi. Una garanzia che quando non basterà più il gioco delle tre carte e il trucchetto dei radicalismi più o meno chic per impedire che il mondo a cui è aggrappato precipiti nell’abisso, insieme ai responsabili della catastrofe incombente, costui potrà trovare rifugio in Arabia Saudita. Sostituendo così i piedi a cui prostrarsi, dai riccastri nostrani agli emiri “neo-rinascimentali”. Sempre che nel frattempo l’innalzamento del livello dei mari non abbia già sommerso pure la penisola arabica.

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