Cinema

Venezia 78, Dune la superlativa opera fantascientifica di Denis Villeneuve ipnotizza il Lido

Fuori concorso, la nuova versione, dopo quella di Lynch, del romanzo di Frank Herbert. Messianesimo, crisi ambientale, colonialismo nella conquista del pianeta sabbioso Dune. La marziale, personalissima, visionarietà del regista canadese (Arrival, Blade Runner 2049), tutta dialoghi all’osso, iperpresenza del soundtrack e ritmo da vendere è l’apice di un inizio festival coi fiocchi

di Davide Turrini

Autorialità intrigante, star glamour osannate in ogni angolo del Lido, scenari fantascientifici che lasciano senza fiato. Non sarà il film che vincerà l’Oscar 2022 (tra i film che passano in laguna capita spesso, vedi solo Nomadland l’anno scorso), ma Dune – Fuori Concorso – di Denis Villeneuve è l’anteprima mondiale che consacra la qualità indiscussa del programma di Venezia78. Era atteso al varco il regista canadese, con il pendaglio del precedente Dune di Lynch a dondolare sinistro sulle casse Warner, e una materia letteraria alchemica di Frank Herbert da plasmare a proprio piacimento. Il risultato, sgomberiamo subito ogni dubbio, è superlativo. Villeneuve ha portato la suggestione di un mondo futuro sui binari della sua oramai riconoscibile, personalissima, marziale visionarietà (vedi Arrival o Blade Runner 2049): una densità compositiva tra dialoghi ridotti all’osso, solennità degli spazi aperti, soundtrack totalizzante (la colonna sonora di Hans Zimmer sempre presente ha rimbombato anche fuori dalla sala di proiezione) che non ha eguali oggi nel cinema mondiale. Villeneuve, assieme a Eric Roth e John Spaihts allo script, non si scosta per nulla dal testo di Herbert, anzi.

Tutto ricomincia nell’anno 10191 dall’invasione apparentemente pacifica del pianeta Arrakis, altrimenti detto Dune, da parte del casato degli apparentemente bonari Atreides su invito dell’imperatore che da lì ha fatto sgomberare i precedenti occupanti, i mefitici e sanguinari Harkonnen. Su Dune, pianeta sabbioso e roccioso, spesso tendente ai 60 gradi centigradi, vive la popolazione molto tuareg degli Fremen e viene coltivata ed estratta la preziosa “spezia”, elemento che serve alle navicelle spaziali per compiere viaggi interstellari altrimenti impossibili. Solo che l’occupazione militare di tutto il casato degli Atreides salterà in un baleno ad opera proprio degli Harkonnen capitanati dall’infido barone, alleati con gli altrettanto nefasti Sardaukar che grazie al tradimento di un importante membro degli Atreides giustizieranno il duca Leto (Oscar Isaac) e occuperanno Arrakis. A salvarsi dalla strage rimarranno Paul (Timothée Chalamet), figlio di Leto, e la madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson). Non di certo due tipini indifesi, perché le loro misteriose doti esoteriche e oniriche (Paul sogna spesso lampi di futuro, compreso l’apparizione della Fremen Chani (Zendaya), oltreché fisiche, permetteranno loro di scappare e sopravvivere nel temibile pianeta Dune, schivando gli attacchi dei celebri vermoni che emergono dalla sabbia, e dando nuova linfa alla leggenda dell’ “eletto”.

Mescolando a livello tematico conturbante messianesimo, crisi ambientale e sempreverde colonialismo, Villenueve ri-costruisce una griglia politica avveniristica e terribilmente attuale come scheletro potente di uno scenario futuristico ipnotico che più che vivere della sorpresa di oggettistica o dettagli (pensate a Mad Max Fury Road, per dire) si costituisce in un’oscura fagocitante immersione psicosensoriale per lo spettatore. Costruzioni, edifici e navicelle future di Dune sono caratterizzate da blocchi imponenti in cemento e silhouette che giocano lugubri e inquietanti su ombre contornate di luce (vedi gli alieni di Arrival), da una dimensione estesa all’infinito dello sguardo e della scena (anche in interni), e da elementi naturali spuri ricorrenti (la sabbia, la roccia, la saliva e il sudore a ricomporre acqua potabile). Un’idea densa, ritmata, pulsante di fantascienza che obbliga a concentrarsi sulla composizione infinitesimale dell’intero quadro, evitando gli alleggerimenti didascalici di mille spiegoni e facendo parlare di continuo il muto spazio inospitale (cieli, terra, pozze d’acqua, spesso come intermezzi senza personaggi), via di fuga di una rinascita etica e umana che pare impossibile. Dice qualcuno in scena, tra l’assenza totale di svolazzi melodrammatici tra protagonisti: “Bisogna unirsi al processo del mistero della vita, bisogna fluire con esso”.

In questo Dune di Villeneuve offre la sponda mistico filosofica a chi ancora si chiede come il testo di Herbert affascinò Lynch, nonché mostra la sotterranea potenza poetica dell’incredibile opera di un sicuro genio del cinema contemporaneo. Villeneuve, tra l’altro, ribadisce nuovamente il concetto centrale della sua strenua battaglia per il suo Dune su grande schermo. “Incoraggio le persone a vederlo sul grande schermo”, ha affermato il regista canadese. “È stato sognato, progettato e girato pensando ad esso. Quando guardi questo film sul grande schermo è quasi un’esperienza fisica. Abbiamo progettato il film per essere il più coinvolgente possibile e per me il grande schermo fa parte del linguaggio”.

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