Cinema

Venezia 78, mezzo disastro “The Lost Daughter”: quando un romanzo di Elena Ferrante incontra “Grosso grasso matrimonio greco”

L’attrice Maggie Gyllenhaal alla regia e alla scrittura ritocca vistosamente La figlia oscura dell’autrice napoletana, trasferendo maldestramente tema forte (l’inadeguatezza di essere madre) e napoletanità avvelenata e sinistra addosso ad una prof inglese in vacanza in Grecia. Colman inguardabile

Se Elena Ferrante incontra un Grosso grasso matrimonio greco ne esce The lost daughter. Inutile girarci attorno: uno dei romanzi più vischiosi, sinistri, anticonvenzionali del nom de plume letterario più celebre al mondo è diventato un film – in Concorso a Venezia78 – curiosamente sgarrupato. L’attrice Maggie Gyllenhaal, sorella di Jake, interprete di Donnie Darko e The Secretary, una laurea alla Columbia, tanto per ribadire su come un certo milieu intellettuale “legge” le peculiarità di altre culture non statunitensi, firma la sua prima regia e trasforma con le sue mani un romanzo napoletanissimo della Ferrante in un guazzabuglio ambientato su una tamarra costa greca. Ma andiamo con ordine.

La professoressa di letteratura comparata Leda (interpretata da adulta da una fin troppo claudicante Olivia Colman e da giovane da una convincente Jesse Buckley) si è presa un mesetto di vacanza/lontananza e comunque di studio in una casetta illuminata ad intermittenza da un faro. Leda ha un rapporto complesso con le due figlie (“Bianca ha 25 anni, Marta 23” è il mantra recitato fino allo sfinimento). In pratica quando le due figlie, da bimbe, piagnucolavano e rompevano le scatole e lei cercava di affermarsi a livello accademico, non le ha mai sopportate, finendo perfino per abbandonarle al maritino per fuggire con un fascinoso professore che la adulava professionalmente ed intellettualmente. Un flashback anglosassone spezzettato e distribuito per tutto il film, anche se i primi venti minuti sono la classica rappresentazione da clichè limitante e sciocchino delle popolazioni mediterranee ovviamente tutte uguali.

Se nel libro la napoletana Leda va semplicemente al mare, nel film Leda è una signorotta inglese che finisce in Grecia. Se nel libro la protagonista era infastidita dalla presenza di chiassosi e folkloristici tizi da spiaggia (poi ci torniamo) da cui allontanarsi per una sorta di autoemancipazione socioculturale, nel film è come minacciata fisicamente da una gang di greci, donne e uomini, che paiono piccoli taglieggiatori. Diteci voi a questo punto perché continuare. Allora ci fermiamo al fatto che romanzo e film collimano, grazie a dio, nel momento in cui Leda scorge tra il gruppo di cafoni la giovane Nina (Dakota Johnson, oramai disinibita bellezza per tutti gli allupati) che sembra avere lo stesso peso sul gozzo avuto da lei in gioventù dovuto all’accudire la petulante figlia Elena.

L’inadeguatezza di essere madre, il senso di colpa divorante, la fatica nell’affermare il proprio sé oltre la generosità naturale di mamma, rimangono tematiche preponderanti e centrali, quasi fluttuanti, come un inconscio che continua a bussare instancabile pur col passare degli anni. In questa dimensione di un incubo sostenuto e reiterato sottopelle in Leda, The lost daughter acquisisce qualche punticino. L’intenzione di scavare stando sul corpo di Leda giovane, del caos casalingo con prole, della liberazione fuori da casa con sesso, è ottenuto perfino grazie ad una scelta di regia finanche claustrofobica e pressante. Ma è quando la Gyllenhaal cuce il presente del mare greco grondante facili scorciatoie di scrittura, la lingua italiana “alta” usata come orpello, la Colman circospetta e caracollante che rifà la regina Anna di The favourite (sarà l’aria del festival di Venezia), che capisci che a ridosso di un plot ferrantiano così tenace e burbero ci voleva una vagonata di esperienza in più.