Un mondo che non esiste più. Ma che non perde la sua attrazione misteriosa, con l’oscurità totale della grotta a inondare i segreti della coscienza e soprattutto dell’“incoscienza”. Il buco di Michelangelo Frammartino, oggi in concorso a Venezia 78, arriva dopo 11 anni da Le quattro volte ed è, come i suoi precedenti, un’avventura dello sguardo, questa volta letteralmente “vertiginosa”. Opera esplorativa per definizione, è la ricostruzione dell’incredibile impresa di un gruppo di speleologi del Nord Italia nel 1961 che, partendo da una Milano in pieno boom economico, si diresse nell’arcaico Sud, sfidando le leggi dello spazio e del tempo. Il buco del titolo riferisce all’Abisso del Bifurto, una grotta profonda 687 metri nel cuore ruvido del Pollino calabrese, conosciuto e abitato solo dai pastori locali. L’idea del film nasce dall’incontro del regista calabro-milanese con alcuni speleologi già mentre lavorava a Le quattro volte, ed è stata governata fin dall’inizio dalla paura, confessata da Frammartino stesso “ho sempre temuto la verticalità, le altezze mi creano fobie, quindi ho avuto molta paura all’inizio, temevo la corda – non solo quella fisica a cui ero appeso durante le riprese – si spezzasse, ma nonostante tutto il progetto continuava e quindi ho capito che dovevamo realizzarlo”. Un progetto, come tutto il cinema immaginifico e lirico di Frammartino, rischioso per l’assenza di quasi tutti i classici asset d’attrazione produttiva, vedi alla voce cast, dialoghi, musica, luci.., ad eccezione di uno: la clamorosa avventura di questi anti-eroi che poteva generare una narrazione cinematograficamente magnifica. E così è stato, perché Il buco è il racconto visionario e poetico di quella spedizione, un attraversamento del tempo e dello spazio con uno sguardo verticale che dalle alture di un grattacielo (il Pirellone, inaugurato proprio nel 1961) discende nelle viscere della terra-madre di Calabria. Un territorio che il cineasta ama anche per il suo essere “una terra informe incredibile, un non-finito, qualcosa di connaturato alla cultura italiana stessa”.
Il buco è diventato per Frammartino testo e pretesto di un discorso cinematografico estremo, ai limiti del paradosso per la presenza di un fuori campo assoluto, quello connaturato alla pratica della speleologia, giammai una rincorsa al trionfo bensì un viaggio nell’oscurità ignota, nel nascondimento sotterraneo, una vera “vocazione alla scomparsa” per dirla con il regista stesso. Perché la luce è una delle assenze di cui sopra, e c’è voluta la maestria dell’immenso Renato Berta (autore della fotografia ticinese che ha illuminato la Storia del cinema a partire dalla Nouvelle Vague) per restituire la magia assoluta di un viaggio “carsico” senza precedenti. “Ciò che vedevamo ci era rivelato dalle scoperte degli speleologi che hanno fatto il film con noi -rivela Frammartino -. Renato Berta ha costruito le luci dei caschi e ci ha seguito dalla superficie in una sala buia davanti a uno schermo ascoltandoci in cuffia mentre noi scendevamo con le macchine da presa fino a 400mt di profondità. Ci sembrava di parlare già con uno spettatore nel futuro, giacché all’interno delle caverne sotterranee il tempo si ferma, e si entra in una dimensione altra”. A compensare l’assenza di luce è, inoltre, l’eccellenza sonora scelta per il film, ottenuta con l’utilizzo del Dolby Atmos 5.1 con quasi 50 sorgenti sonore “per lavorare sull’effetto di spaesamento”.
Per quanto meno straordinario del capolavoro Le quattro volte, l’opera terza di Frammartino è comunque un prodigio a tutti gli effetti, capace di risvegliare la coscienza su quanto la Storia maiuscola ha tenuto finora nascosto, e allo stesso tempo di ragionare sulle possibilità ancora insondate del linguaggio cinematografico, nel suo magico edificarsi su antiche opposizioni – vedi scienza e mitologia – o relazioni contigue come la pastorizia e la speleologia, il cinema e la psicanalisi (le tre discipline nate nel 1895!), in un viaggio immaginifico, storico, filosofico e politico di rara e autentica bellezza.