Nel 1961, mentre a Milano si sale in Calabria si scende. Comincia di fatto così Il buco di Michelangelo Frammartino, presentato in concorso a Venezia. Un vecchio servizio televisivo fa da bussola del tempo: siamo nell’epoca del boom e perfino un grattacielo è una notizia. Il servizio tv mostra il grattacielo Pirelli visto da fuori: un cronista sta salendo con una pedana di quelle che servono per lavare i vetri esterni, dentro le stanze che si intravedono si lavora alacremente, fuori, in lontananza, c’è la città che sale. Il miracolo però non incanta tutti e un gruppo di speleologi decide di lasciarsi alle spalle quell’atmosfera frizzante e di andare in Calabria, dove nessuno ha mai fatto ricerche speleologiche. Là si scenderà nel cuore della terra.
Il buco racconta la storia di questa discesa intrecciandola con un’altra storia, quella di un vecchio pastore che vive il ritmo della natura, impermeabile ad ogni variazione: gli animali sono il suo orizzonte, il silenzio la sua forma di comunicazione. Per lui comunicare vuol dire soprattutto guardare. Guardare fuori campo, il suo mondo o “l’altro” mondo, chissà. Non servono troppi arnesi narrativi a Frammartino per scolpire questo film, nitido e rugoso come la faccia del vecchio: pochi o nessun dialogo, niente musica, solo ritmo. L’alternanza tra la progressione della discesa nel ventre della terra ad opera degli speleologi e la progressione quasi ossimoricamente statica verso la morte del vecchio ritma tutto il film, facendone un elogio della lentezza. Attenzione: non lentezza nel senso di noia – i novantatré minuti del film scorrono via bene – ma nel senso di placido trascorrere della vita. E, insieme, lezione di asciuttezza stilistica.
Prendiamo il momento in cui il vecchio comincia a star male: il suo corpo è disteso in una capanna, lui sembra quasi morto, tanto che un amico prova a vedere se respira ancora. Stacco: le labbra accennano un barlume di respiro. Stacco: dettaglio di una mano, nella quale una vena batte per un attimo. La vita scorre ancora, ma il suo ritmo è quasi assente. Da qui si passa d’improvviso alla grotta: pacchi di materiali necessari a questa incursione nel corpo della terra vengono calati lentamente. Stacco: il momento del relax e si gioca a pallone. Nessun legame, nessun dialogo, ma un senso pulsante di vita.
Come anche in altri film (Il dono, Le quattro volte) Frammartino eccelle nelle associazioni di immagini e dunque di idee: per esplorare la grotta occorre “incendiarla”, cioè bruciare qualche giornale e lanciarlo giù affinché quel fuoco fatuo illumini brevemente lo spazio da “violare”. Quei giornali bruciano, ma qualche frammento resta integro. Gli speleologi scendono, si trovano davanti l’acqua di un piccolo lago, nella quale, guarda un po’, sono finiti i brandelli non bruciati dei giornali. Frammenti della società del boom: pagine pubblicitarie evocano Fiat, Aperol, Paulista, mondi e valori lontani.
Al segreto della natura che resiste si oppone la friabilità dei media e dunque della cultura che si sfalda. Di queste associazioni fulminee se ne potrebbero citare altre, basterebbe per esempio la scena degli speleologi che dormono in giacigli di fortuna di una chiesa e si trovano accanto a una statua di Cristo coricata come loro. Immagine quasi pasoliniana. Tutto è appena accennato, non c’è svolgimento pieno di queste storie, come se ogni gesto lasciasse dietro di sé i puntini di sospensione. E’ proprio in questa dimensione di racconto potenziale che Il buco trova la sua forza narrativa, proprio cioè nel non essere fino in fondo racconto pur essendolo. E raccontando, nel bellissimo finale alternato tra la vicenda degli esploratori e la vicenda del vecchio, la lotta impari dell’uomo con la natura. Tutto si chiude, e l’ultima immagine è quella di una nebbia nella quale l’immagine sfuma.