Ormai ne sono convinto. Il punto di vista è una cosa seria. Non per niente ho intitolato il mio ultimo libro Il Punto di Vista non è un piano bar. Col punto di vista non si scherza affatto, è addirittura determinante. C’è chi vede l’Amazzonia come un luogo sacro, una roccaforte ambientale, un patrimonio botanico e culturale e chi lo vede con il dollaro negli occhi, come una miniera d’oro da sfruttare fino alla fine. Punto.
Che l’Amazzonia sia una questione cruciale per tutta l’umanità lo sappiamo da decenni. È talmente grande che, nonostante il suo disboscamento stia andando avanti da oltre un secolo, è ancora lì, ferita profondamente, ma ancora maestosa. Si tratta certamente di un problema ambientale, ma non solo: è anche politico, economico e culturale. Politico, poiché l’Amazzonia è in Sudamerica, ma la sua salvaguardia riguarda tutta l’umanità. È di pertinenza perlopiù brasiliana e i brasiliani rivendicano il diritto a fare quello che vogliono in casa propria (diritto discutibile), sostenendo che le foreste europee furono devastate a loro tempo. Peccato che le aree devastate in Europa fossero risibili rispetto all’Amazzonia, che al massimo potrebbe essere paragonata al bacino del Congo, e che le aree protette in Europa e Stati Uniti negli ultimi trenta anni siano addirittura aumentate. Sull’Amazzonia si sono quindi giocate e si giocano lotte politiche, proteste, pressioni da parte di altri stati e organizzazioni sovranazionali.
Economico, poiché gli interessi dei fazenderos sono enormi. Si tratta di legnami, minerazione, coltivazioni e, soprattutto, allevamenti estesi. I fazenderos corrompono governo e istituzioni e si muovono agevolmente, usando anche violenza a profusione nei confronti non solo delle piante, ma anche e soprattutto degli indios, che di questi territori sono i veri custodi. E questo apre un altro tema cruciale, che è quello culturale, altrettanto se non più importante. L’aspetto culturale riguarda soprattutto le popolazioni indigene e le specie botaniche, e le due cose sono intimamente legate.
Il bacino amazzonico è uno degli ultimi baluardi delle popolazioni indigene, una vera seccatura per il progresso; queste ultime non solo avanzano diritti sacrosanti, ma sono una miniera di informazioni sul piano spirituale, psicologico, culturale, botanico e farmacologico. Cose che la miopia di gran parte della cultura occidentale non è in grado di vedere. Una quantità considerevole di farmaci dell’Occidente deriva da principi attivi isolati da piante amazzoniche. Gli indios, inoltre, sono portatori di conoscenze ancestrali sull’utilizzo di moltissime di queste piante, ma non solo: sono anche custodi di conoscenze arcaiche che potrebbero scomparire per sempre.
Proprio in questi giorni è in corso una massiccia protesta indigena a Brasilia contro il governo federale, che riguarda principalmente la ormai incancrenita questione della demarcazione delle terre indigene. Demarcazione ad alto rischio, così come la sopravvivenza dei suoi abitanti autoctoni. Nel frattempo l’Inpe, Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali, lancia l’allarme. Il disboscamento dell’ultimo anno è il peggiore in sei anni, probabilmente record storico. Dal 1° gennaio al 25 giugno 2021 sono stati disboscati 3.325 chilometri quadrati di foresta, pari a due volte l’area di San Paolo. Negli ultimi 11 mesi sono stati disboscati 8.381 chilometri quadrati. A questo si aggiungono i continui incendi, sempre più aggressivi, causati da vari fattori tra i quali la vegetazione secca e il dolo.
In ultima analisi, come sempre, si tratta in parte di un problema tecnico, governativo e politico, ma a monte la causa principale della devastazione è culturale. Ovvero prevale generalmente il punto di vista occidentale che vede in qualsiasi cosa solo l’aspetto della convenienza economica. In questa, come praticamente in tutte le questioni della nostra era, non ci sono soluzioni facili. L’unica vera sarebbe un cambiamento di rotta radicale proprio nel modo di vedere le cose.