Esistere significa sporgere, ed è uno sporgere sempre sul precipizio, come il nostro volto che si affaccia continuamente sul vuoto. Precipitare dovrebbe essere il segno di una vita vissuta fino in fondo, non siamo fatti per volare, Icaro ne sa qualcosa. La scrittura del mio amico Matteo Franco si affaccia sempre sul vuoto, su una noia profonda che è sul punto di ingoiarlo, non prima di averlo fatto a brandelli, brandelli umani, troppo umani. Per Baudelaire la noia è un mostro delicato che, senza strepito, con uno sbadiglio, può ingoiare il mondo, l’universo.
Nel romanzo di Franco, Da stelle morenti, ambientato in una Carpino immaginaria, fra le valli del Natisone, la noia è l’ebetudine di un paesino di appena settanta anime, è una noia vasta come il paesaggio e stretta come un crampo allo stomaco, una noia che fa sanguinare l’Essere, ed è già una forma di horror esistenziale, di horror puro e allucinato, limpido di se stesso. Per fortuna questo paesino un giorno verrà sconvolto dal Male, da demoniache presenze, da organismi gelatinosi affamati di corpi, di volti, da creature simili alla dea Kalì, ma molto più terrificanti, da mostri lisergico-kafkiani, e si scatenerà una lotta disperata per la sopravvivenza, fino all’ultimo grido.
Gli abitanti, prigionieri di una distorsione spazio-temporale, non hanno la possibilità di fuggire, quindi bisogna combattere, imbracciare un fucile, diventare coraggiosi, farsi finalmente umani: nella lotta. Ci leggo una metafora della contemporaneità, come se fossimo tutti prigionieri di un lockdown artigianale e sartoriale, fatto su misura, stratificato da tutte le nostri abitudini, dai nostri assensi devitalizzati, da una vita predigerita e masticata dal nulla e dal conformismo.
Viviamo blindati, in ogni senso. Non sappiamo più immaginare, non riusciamo più a concepire visioni salvifiche, mansuete vittime di una deiezione quotidiana, divorati dalla dittatura del frammento, dal clic isterico, non c’è più la capacità di narrare e di ascoltarsi e ascoltare, viviamo nell’interruzione continua di noi stessi, non esistiamo più, non ci sono più precipizi, ma solo pianure desolate, fatte di puzzle che non combaciano, e il disegno finale del nostro destino non assomiglia a niente, si riduce a un puzzle senza senso, senza approdo. L’horror è sacro. Dio stesso è horror vacui, una sfida lancinante ai nostri limiti, una preghiera ignota che sembra un brivido oscuro.
Matteo Franco sente tutto questo sulla propria pelle, nel suo romanzo apparentemente di genere, l’horror d’azione, si cela questa angoscia esistenziale, questa ricerca continua, non tanto di un senso, ma di una liberazione. Liberaci dalla noia, questa è l’invocazione, che sia Dio o il diavolo non ha importanza, l’eterna lotta tra il bene e il male, tutto, tutto fuorché questo inebetimento quotidiano. Ben vengano i mostri che sono sempre meravigliosi, ben vengano i demoni, sia scoperchiato l’inconscio, che si facciano defluire tutte le rimozioni nelle fessure del reale, che Carpino sonnolenta sia invasa da alieni gelatinosi, che la nostra vita torni ad avere un senso nella lotta, contro tutto ciò che ci vuole privare dell’avventura, che si torni a sfogliare un libro con timore e tremore, tra cani che sbranano il proprio corpo, tra automutilazioni, tra rapporti sessuali finalmente allucinati, svincolati dai lacci della castrazione psichica e moralistica.
Solo da stelle morenti ci può venire ancora un messaggio di vita e di ribellione alla noia profonda dell’Essere, solo l’horror ci può ancora salvare, quello sacro o quello profano, basta che sia horror: limpido, puro, avvolgente, precipitante, divorante, insaziabile, insaziato, metamorfico, liberatorio, feroce, divino, racchiuso in un racconto.