Il green pass tra sanità e politica, la campagna vaccinale, la necessità del tracciamento, l'ipotesi-obbligo lanciata da Mario Draghi. Alla festa del Fatto Quotidiano a Roma, intervistati dalla vicedirettrice Maddalena Oliva, il microbiologo dell'università di Padova e il direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute hanno detto la loro su tutti i fronti del contrasto alla pandemia
Il green pass tra sanità e politica, la campagna vaccinale, la necessità del tracciamento, l’ipotesi-obbligo lanciata da Mario Draghi. Alla festa del Fatto Quotidiano a Roma, intervistati dalla vicedirettrice Maddalena Oliva (rivedi qui l’incontro), il microbiologo dell’università di Padova Andrea Crisanti e l’epidemiologo Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute, hanno detto la loro su tutti i fronti del contrasto alla pandemia. A partire dal certificato verde, ormai necessario per accedere a un lungo elenco di attività: che per l’uno è una misura esclusivamente politica, per l’altro può avere anche una giustificazione sanitaria. “Dire che il green pass crea ambienti sicuri è una baggianata”, sostiene Crisanti, “è solo uno strumento che incoraggia le persone a vaccinarsi. Per considerarla una misura sanitaria dovremmo misurarne l’impatto”. Rezza, invece – pur ammettendo che il pass è “un surrogato dell’obbligo” – ricorda che “un certo grado di protezione lo dà: se siamo tutti vaccinati, stiamo a distanza, abbiamo una certa probabilità in più di essere protetti. Se l’alternativa è mandare all’aria l’economia e i rapporti sociali, allora può considerarsi una misura di sanità pubblica”.
Si è parlato anche della campagna vaccinale, con gli oltre 3,5 milioni di over 50 ancora senza una dose. È a loro che Crisanti si rivolge: “Con un R0 (il numero che indica il tasso di replicazione del virus, ndr) pari a 6 o 7, nel giro di un paio d’anni si infetteranno tutti i non vaccinati, bisogna dirlo chiaro. Perché uno prima o poi un errore lo fa”. E a più di cinquant’anni, aggiunge Rezza, “il rischio di finire in terapia intensiva c’è”, mentre “i vaccinati che finiscono in terapia intensiva sono veramente pochi, per lo più ultraottantenni con gravi comorbidità”. L’epidemiologo ricorda che i no vax più estremi, quelli “ideologici”, sono meno dell’1% della popolazione, “una minoranza rumorosa”, mentre accanto a loro c’è “una larga fascia di persone indecise, influenzabili in qualche misura, che magari non ha la percezione del rischio molto elevato di contrarre la malattia”. D’altra parte, spiega, è normale che una quota di vaccinati possa ammalarsi, perché “a parte il vaccino contro la febbre gialla, gli altri non proteggono mai al 100%, anzi quelli anti-Covid hanno un’efficacia migliore di molti altri”. E poi c’è un effetto paradossale: “Più persone si immunizzano, più ad ammalarsi saranno anche i vaccinati, perché i non vaccinati saranno sempre di meno”.
Crisanti, però, sposta il fulcro del ragionamento: “Bisognerebbe smettere di parlare di vaccinati e non vaccinati che si ammalano, e iniziare a ragionare in termini di protezione della popolazione“. Fa l’esempio dell’Inghilterra, che “ha eliminato tutte le restrizioni ma riesce a tenere sotto controllo il virus con un sistema gigantesco di tracciamento e isolamento: se lo eliminassero, i casi schizzerebbero. Ora che da noi riapriranno le scuole e riprenderanno le attività sociali, c’è bisogno di un impegno ulteriore in termini di test per evitare che i numeri crescano. Con un tasso di letalità che è sceso allo 0,2%, con cinquanta morti al giorno dovremmo avere 25mila contagi, mentre ne contiamo 5mila. Evidentemente molti casi ci sfuggono, perché testiamo troppo poco o testiamo le persone sbagliate”. Per questo, spiega, “i tamponi non vanno a tappeto, ma in maniera tale da intercettare le catene di trasmissione, mentre oggi facciamo se va bene soltanto il tampone ai conviventi”. E “bisogna distinguere tra i diversi tipi di test: quelli antigenici e salivari possono essere utili per lo screening, quelli molecolari per il tracciamento. I Paesi che hanno fatto meglio in questo senso – spiega – sono quelli che ogni anno combattono con le malattie infettive e hanno la cultura della prevenzione: prendiamo il Vietnam, che è riuscito a fare cose straordinarie con un quinto del nostro Pil”.
Infine, il caso di Israele, dove nonostante la grossa campagna di vaccinazione i casi e le ospedalizzazioni stanno risalendo. Qui Crisanti solleva una critica alle case farmaceutiche: “L’immunità indotta da Pfizer dura tra i sei e i sette mesi. Dopo c’è un numero importante di persone che si infettano, si ammalano e vanno in rianimazione, soprattutto fragili e anziani. Questo rischia di riportare indietro le lancette dell’orologio. Pfizer, Astrazeneca e Moderna avevano i dati sulla durata delle vaccinazioni da maggio-giugno: perché non li hanno condivisi? È un po’ tardi scoprire ora che durano sei mesi. Saperlo avrebbe potuto influenzare anche i decisori politici. Se il vaccino non fa più effetto perché siamo di fronte a una variante, di dosi ne possiamo fare anche cinque o sei, non cambia niente”, dice. “In Israele – conferma Rezza – c’è un aumento impressionante dei casi per un Paese che ha vaccinato tanto e bene. Il loro caso mostra che anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere l’infezione, e che alcuni possono sviluppare una malattia grave”. Pertanto “è normale – dice – che per i vaccini si facciano più di due dosi. Il fatto di dover fare una dose in più o una dose di richiamo è normale per la gran parte dei vaccini, non vuol dire che il vaccino non funziona”.
Sull’obbligo vaccinale annunciato dal premier Mario Draghi, per Rezza “non c’è niente di scandaloso nell’ipotizzarlo, ma non va discusso in modo pregiudiziale. Ci sono però dei problemi tecnici e metodologici: come si applica? Andrebbe tutto affrontato, discusso e pianificato”. Mentre per Crisanti “se avessimo un vaccino che protegge all’85-90% e dura perlomeno un anno, dico assolutamente di sì“.