L’ennesimo film del messicano James Franco in Concorso a Venezia non può essere considerato un film di forte critica sulla società contemporanea
E critichiamo pure questa società contemporanea. Tanto qualcuno pronto a scrivere che è un film “contro il potere”, “contro il male”, “contro i cattivi”, così senza specificare chi e cosa sono questo potere, questo male, questi cattivi, lo trovi sempre. Poi incontri Sundown, l’ennesimo film del messicano James Franco in Concorso a Venezia e corre l’obbligo di scrivere qualche riga per avvisare che, almeno per quel che ne abbiamo compreso noi, esiste anche un cinema politicamente reazionario e conservatore scambiato per progressista. Nulla di male, anzi. Lars Von Trier, che ultimamente apprezziamo molto, non è di certo un solare e illuminato liberal alla George Clooney. Eppure le sue tracce recenti sono rimaste indelebili nella storia del cinema, tanto quanto la sua espulsione dall’empireo festivaliero/produttivo che conta con la riflessione malandrina su Hitler. Ma lasciamo Lars nel suo bunker assieme al Fuhrer e proviamo a spiegare perché Franco e il suo cinema, che qui a Venezia l’anno scorso hanno osannato per Nuevo orden e quest’anno pare continuino, sono testi subdolamente reazionari. Capita. Diritto di espressione. Dovere di specificarlo.
Allora ancora una volta con Sundown il punto di vista di partenza (e arrivo) è quello di una famiglia di milionari britannica (nell’ultimo Nuevo orden era una ricchissima famiglia di Città del Messico ovviamente non di origine indigena) in vacanza ad Acapulco. Neil (Tim Roth) e Alice (Charlotte Gainsbourg) Bennett sembrano marito e moglie, anche se poi risulteranno fratelli in uno dei colpi di scena più goffi della storia del cinema. Sono sdraiati su lettini di un appartamento principesco a pizzo sul mare, in un resort isolato e protetto dal mondo, a prendere il sole, gozzovigliare e sbevazzare assieme ai due nipoti (sembravano figli, appunto) poco più che maggiorenni. Hanno servi, autisti, maggiordomi, tutti indigeni con la panza, taciturni, incurvati, genuflessi. Poi accade una disgrazia a Londra. La loro madre è morta. La via del ritorno è immediata a addolorata soprattutto per Alice e i ragazzi, mentre Neil dice di aver perso il passaporto. Lui rimane lì, recupererà il passaporto e al prossimo aereo ripartirà, ma è tutta una balla, perché Neil si fa subito accompagnare da un taxista in una bettola del centro e poi si abbandona su una seggiolina di plastica letteralmente con i piedi in acqua, in mezzo a migliaia di bagnanti indigeni, a bere birra fino a quando non incontra una belle venditrice di cianfrusaglie con cui fa subito l’amore e con cui comincia silenziosamente a convivere nella bettola. Niente di che, se non fosse che davanti alla macchina da presa passano spesso guardie armate fino ai denti, ogni tanto in mezzo alla gente viene improvvisamente ucciso qualcuno.
La seconda disgrazia, per le vittime alto borghesi londinesi, avviene poco dopo, ma sono sempre i cattivoni indigeni con la panza e le infradito a scatenarla. Ecco, per chi si aspettasse un film minimalista, Sundown non lo è. Anzi, vuole raccontare con un finto sottotesto che mescola leziosamente metaforico e simbolico la “società”. Semmai di astrattamente evanescente c’è l’understatement parecchio di maniera di Roth. Perché tutto il resto è connotato dal solito strisciante sguardo reazionario di Franco sulla plebe sfatta e squallida che sta attorno ai suoi lindi venditori europei ultraricchi di carne di maiale. Insomma, poniamo il quesito per un ventenne magari al Festival, come centinaia e centinaia vediamo ogni giorno qui al Lido: chi è l’oppressore e chi l’oppresso nello schema di Franco? Ovvio le vittime sembrerebbero i Bennett e Franco non va molto in là rispetto a questa presa di posizione ideologica. Perché nei suoi film non esiste mai la rappresentazione, l’analisi, l’ipotesi di una dialettica tra alto e basso, tra chi obbliga allo sfruttamento e alla miseria e chi viene sfruttato e immiserito. Memorabile il caos gerarchico di classe proprio in Nuevo Orden. Perché per Franco l’interesse è sempre verso il comportamento della borghesia industriale finanziaria politico-militare dominante. Sono loro, un po’ come nel mondo feudale medioevale, a dover modificare il tiro, provare a capire, modificare, “riformare” la società. Mica quei disgraziati che si spezzano la schiena per offrirti un resort lindo e sicuro con la miseria sullo sfondo e che qualche volta (troppe? boh) smitragliano un riccone per rubargli denaro. Inutile, per Franco nella società contemporanea più che il potere, il male, i cattivi, c’è una riga netta e spessa sopra la quale sta il proprio sguardo da cineasta reazionario e sotto la quale stanno i senza nome, i reprobi, il fondale inanimato. Insomma, qualcosa di moralmente parecchio discutibile, ma tant’è: leggi qua e la e scopri che Franco gira film di forte critica sulla società contemporanea. Paradossalmente: basta Franco e aridatece Enamorada di Emilio Fernandez o Roma di Alfonso Cuaron.