Lavoro & Precari

Reddito cittadinanza, non solo Meloni e Salvini: a Cernobbio gli imprenditori accusano ancora i percettori con “la teoria del divano”. Nonostante sia smentita dai dati

Non sono pochi gli imprenditori che, nonostante i numeri dicano tutt'altro, insistono. Come Alberto Bombassei, che attacca (per sentito dire) gli stagionali. E così al Forum che riunisce il gotha delle aziende italiane pubbliche e private si torna indietro di decenni rispolverando anche le gabbie salariali. Ma c'è chi va in senso opposto. Patuano: "Persone preferiscono lavorare". E Riccardo Illy ammette: "C'è un problema di salari bassi"

Il reddito di cittadinanza naviga in brutte acque anche sul lago di Como, comprese quelle che bagnano Villa d’Este durante l’annuale Forum Ambrosetti. Il premio per chi la spara più grossa lo ha vinto la leader di FdI, Giorgia Meloni, che in modo sprezzante lo ha definito “metadone di Stato”. Ma anche molti degli imprenditori presenti non sono da meno. E con buona pace del blasonato think tank di Cernobbio e del patron Valerio De Molli che considera “vergognose le paghe di molte categorie in Italia”, le argomentazioni degli ospiti sono le più diverse, comprese le accuse già smentite dai numeri.

“Certo che credo alla gente che preferisce prendere il reddito e stare sul divano piuttosto di lavorare”, dichiara il presidente di Brembo, Alberto Bombassei, che racconta le sue vacanze estive al Sud e le testimonianze degli agricoltori: “Non trovano chi raccoglie pomodori e angurie a causa del reddito”. Il teorema è già noto: “Un reddito così esiste anche in altri Paesi, ma noi italiani siamo più furbetti e preferiamo arrotondarlo con un po’ di nero invece di accettare un lavoro, ed ecco la mancanza degli stagionali“.

Eppure, come ilfattoquotidiano.it ha già riportato, i dati negano il fenomeno. Sugli stagionali, in particolare, i rapporti di lavoro attivati a maggio di quest’anno sono 142mila, il doppio rispetto al 2017 e 50mila in più del 2018, quando il reddito di cittadinanza non c’era. Eppure anche un’associazione come Assoedilizia sostiene il contrario. Il suo presidente, Achille Colombo Clerici, parla di “fenomeno acclarato e di meccanismo perverso e diseducativo che disincentiva la ricerca di lavoro”. Lo stesso linguaggio di Renzi.

Un’altra lettura la dà l’amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, che pur non entrando nel merito delle cifre, laicamente si domanda perché una persona dovrebbe rinunciare a un reddito di cittadinanza sicuro per un’offerta di lavoro non sicura o malpagata: “Deve esserci una convenienza, no?”. E così il presidente di A2A, Marco Patuano, che difende il diritto di ognuno di “farsi i suoi conti”. E aggiunge: “C’è molto populismo sul tema. Rimango convinto che le persone preferiscano lavorare, è una questione di dignità”.

I numeri, a tenerne conto, dicono che metà delle famiglie che percepiscono il reddito perché in povertà assoluta hanno al loro interno un lavoratore attivo. A dimostrazione del fatto che in Italia si può essere poveri anche percependo uno stipendio e che gli scansafatiche, dove esistono, non li ha inventati il reddito di cittadinanza. Più preparato è senz’altro Riccardo Illy, vicepresidente dell’omonimo gruppo: “I dati sono chiari, l’incidenza del reddito sulla carenza di manodopera è praticamente nulla”. “Se però sommiamo la disponibilità del reddito di cittadinanza all’interesse di molti imprenditori di pagare i lavoratori in nero, la miscela diventa esplosiva”, ragiona l’imprenditrice Luisa Todini, che parla di esperienze personali nel settore alberghiero, “dove chi preferisce non rinunciare al reddito o alla naspi esiste”.

Le somme le tira l’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: “Il risultato è la carenza di manodopera alla quale stiamo assistendo”. E dunque? “Bene lo strumento di contrasto alla povertà, ma va slegato dalle politiche attive perché su quel fronte ha fatto più danni che altro”.

Tutto da rifare, insomma. E nessun rimpianto per i navigator in scadenza a dicembre, né per l’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal), passata da garante della riforma direttamente al commissariamento. Sul suo destino basta chiedere al ministro del Lavoro Andrea Orlando, che appena messo piede a Cernobbio risponde così a ilfattoquotidiano.it: “Anpal avrà un ruolo ma in Italia c’è il titolo quinto della Costituzione, che prevale”. Semplice: il paradigma al centro della riforma del governo gialloverde del giugno 2019, attuativo del reddito di cittadinanza e di un nuovo corso delle politiche attive, è già stato ribaltato. Con il baricentro che torna saldamente in mano alle Regioni, ancora in affanno con la burocrazia legata al passaggio che ha consegnato loro i centri per l’impiego, prima in capo alle province.

E pazienza se le stesse regioni, come nella migliore tradizione, tornano a muoversi in ordine sparso, tra chi ha fatto i concorsi per potenziare i centri per l’impiego, chi ancora li deve portare a termine e chi non ha nemmeno pubblicato il bando. Orlando se ne lamenta, parla di ritardi e spera che si possano recuperare. Ma intanto distingue: “Non ho capito, lei sta parlando di reddito di cittadinanza o di politiche attive?”, ribatte a chi pone la questione. Insomma, a Cernobbio del famoso cerino non c’è traccia. Resta in mano a chi del reddito di cittadinanza ha bisogno davvero e, lungi dall’essere la rivoluzione annunciata, è già tornato ad essere un sussidio con fondi e platee in balia dei futuri governi, delle leggi di Bilancio. Matteo Salvini, ad esempio, sulle rive del lago già ragiona dei soldi del reddito di cittadinanza: “Li darei alle imprese”. È l’Italia del lavoro, che vista da Cernobbio sembra tornata indietro di anni.

Così e in attesa che governo e regioni ridefiniscano per l’ennesima volta una strategia delle politiche attive, il dibattito retrocede fino al binomio domanda-offerta, che in assenza di tutele è la legge del più forte. “Non so qual è lo stipendio più basso nel settore edile”, risponde il presidente di Assoedilizia dopo aver tuonato contro chi rifiuta la busta paga perché prende il reddito di cittadinanza. “Non mi chieda una cifra, dipende dalle esigenze, dal costo della vita nelle aree del paese”, risponde Todini. “Tocca tornare indietro di decenni, scomodare le gabbie salariali”, aggiunge Patuano, che poi accetta di fare due conti e per sopravvivere dignitosamente in una città come Milano ritiene che non si dovrebbe stare al di sotto dei millecinquecento euro al mese di stipendio.

Che basti confidare nella capacità di rilancio e resilienza del sistema paese o come dicono in molti a Cernobbio, “dare fiducia al mercato”? Un’illusione per un’ampia fetta di lavoratori, come chiarisce lo stesso Patuano: “In Italia mancano lavoratori specializzati, quelli che possiamo e dobbiamo remunerare bene. Mentre temo che la competizione crescente renderà ben più difficile alzare i salari per un’ampia platea di lavoratori poco specializzati”. Termini che ci riportano drammaticamente al presente, dove povertà e lavoro non sono più mondi separati, dove sempre più spesso anche chi è in grado di lavorare o addirittura ha uno stipendio può avere bisogno di politiche sociali.

E mentre la politica ripiega sulle barricate dei favorevoli e dei contrari al reddito di cittadinanza, il presidente di Fincantieri Giampiero Massolo prova a indicare il famoso “voi siete qui”. “Non possiamo più illuderci che esista una garanzia di impiego, dobbiamo avere istituzioni in grado di formare coloro che possono ottimizzare la propria domanda di lavoro con l’offerta che ormai è destinata a evolversi continuamente”.