La Mostra del Cinema di Venezia 2021 non è solo Sorrentino, Martone, Almodóvar, Mainetti, Villeneuve o Larraín. Così nel mezzo del cammin di Venezia 78 ci ritroviamo a dare una conta a quanto visto sinora in una delle sue sezioni più importanti: la Settimana Internazionale della Critica.
Ecco allora tra i lungometraggi quello d’apertura, presentato l’1 settembre. In un futuro prossimo di velivoli che tagliano il cielo di una metropoli asiatica dove i pericoli corrono in rete, alcuni ragazzini indagano sulle statue d’oro che compaiono loro in sogno. Fuori Concorso in questa sezione, Karmalink di Jake Wachtel è il primo film fantascientifico di produzione cambogiana. Quest’opera prima unisce uno sguardo denso di cromatismi urbani tra visioni alla Bong Joon-ho – quest’anno presidente della giuria alla Mostra peraltro – e tratti orientali da Grosso guaio a Chinatown nella creazione di un mondo vagamente lisergico, visivamente intrigante ma narrativamente tentennante.
Tutto ruota tra il mistero di una spiritualità applicata alla tecnologia e la morale karmica fatta di reincarnazioni e competizione – più che ostilità – verso l’Occidente corruttore. Il film sembra chiedere al suo pubblico: sarà meglio il vecchio concetto di karma o un nuovo super-computer in connessione con tutte le coscienze possibili? Tra i vari segni del film registriamo intanto QR code tatuati su petti di ragazzotti hacker che spacciano realtà aumentata come droga. Niente buchi in vena o strisce da tirare, ma gemme luminose da istallarsi in fronte. Altro che il nostro Green Pass tatuato sul braccio di un adolescente!
Passiamo a una Taranto piena di confini imposti da un disastro ambientale. Lo spettro dell’Ilva incombe da ogni fotogramma, anche se nulla è ovviamente dichiarato. In questa realtà alternativa, oltre le grate intorno alle zone coperte di polvere gialla non vi è legge né giustizia, così Mondocane (interpretato da Dennis Protopapa) e Pisciasotto (col viso bullo e fragile di Giuliano Soprano) tredicenni cresciuti da un pescatore, riescono a farsi arruolare in una baby gang contaminata, le Formiche. Sì, il nome del primo giovanissimo attore sul set titola questo solidissimo esordio al lungometraggio di Alessandro Celli. La polizia è a caccia dei loro nascondigli segreti e nel frattempo impone la sterilizzazione alla povera gente che riesce a rastrellare nelle zone vietate, mentre su altre sponde del Mar Piccolo alcune spiagge full optional coccolano i propri visitatori ricchi e spensierati.
Baffi e sopracciglio da tricheco pazzo invece, a sua stessa ammissione pensando al Daniel Day-Lewis del Petroliere, troviamo Alessandro Borghi nell’interpretare Testacalda. Abbraccia accarezza e governa la sua baby gang come un fratellone paterno, pieno di cicatrici in testa. Chissà quale passato gliel’avrà rotta. Accento ambiguo tra i marcatamente pugliesi che si ascoltano nel film, il suo risulta misteriosamente privo di cadenze, ma con alcune vocali a volte strascicate come nella parlata di chi proviene dall’Est Europa ma da anni vive appieno l’Italia e la sua lingua. È l’ennesima trasformazione magnetica dell’attore romano, che stavolta si aggira tra sale d’aspetto Urp e una clinica oncologia abbandonate in una sorta di Mad Max all’italiana senza fronzoli e con tanta ottima consapevolezza.
Molte location della vera Taranto vengono riscritte in chiave distopica con un mainstream vendibilissimo e potenzialmente internazionale. A proposito della ricostruzione, il tempo sembra essersi fermato agli anni Novanta, sia per l’abbigliamento dei personaggi che per l’assenza di chincaglierie digitali. Con la join venture tra Minerva Pictures di Stefano Curti e Groenlandia di Rovere e Sibilia possiamo dire che si è raggiunto un risultato mirabile, generoso di azione, dramma, sfondo eco-ambientale, fedeltà amicali, tradimenti e molte altre imbastiture narrative ben congegnate. Con un protagonista, poi, che sembra quasi un giovanissimo Mel Gibson alla tarantina, come fossimo nel prequel italiano di Interceptor. E una colonna sonora saltellante di funk. Tutto è da scoprire, tutto è da amare in questo Mondocane.
Con Mother Lode ci spostiamo sulle Ande peruviane per una produzione Francia, Italia, Svizzera che c’inserisce con un bianco e nero nitido da reportage su una storia di minatori. Un giovane operaio punta a migliori guadagni spostandosi lontano dalla città e dalla famiglia. Riuscirà a trovare l’oro sulle montagne? L’isolamento in una voce fuoricampo suggestiva quanto le immagini del paesaggio roccioso parlano di ciò che il diavolo scambia per un po’ di fortuna. Ce ne vuole su quelle cime impervie, a tirare avanti con un lavoro mai innocuo. La regia secca e suggestiva di Matteo Tortone lungo chilometri di sassi e la vastità di una natura incontrollabile e spietata parlano con preziosa valenza socio-antropologica di mondo reale, di un angolo immenso di mondo, eppure sconosciuto.
Sempre nella Sic, rimaniamo nella sfera concettuale di una natura imponente e insuperabile dove l’uomo è una goccia nel mare. Come i protagonisti naufraghi di Eles transportan a morte, che fuggiti con una vela di una caravella di Colombo cercano fuga e redenzione. Parallelamente una donna compie l’impossibile pur di salvare la sorella. Le rocce delle Canarie circondano ogni protagonista di questo lavoro diretto da Helena Girón e Samuel M. Delgado, e la trama pittorica per la quale optano a un certo momento gli autori pone tutto su un piano di racconto che va oltre il contemplativo. Non si tratta di cinema d’intrattenimento ma di film d’arte, dove l’immagine viene trattata con una liturgia ben precisa lasciando alla narrazione un percorso di strade opposte a quelle del mainstream. È un cinema che non necessita della storia come canonicamente intesa, ma nel quale ci si deve perdere, o naufragare, per esperirne il significato profondo. Chissà se lo vedremo mai nelle nostre sale.
Non mancano i corti, con la commossa apertura omaggio a Valentina Pedicini, scomparsa a novembre a soli 42 anni per un tumore. Il suo Era ieri, racconto di un amore conteso e inconfessabile, riproposto in cima all’evento, è già stato in concorso alla Settimana della Critica nel 2016. In quell’edizione c’era anche Rossella Inglese, che oggi torna con Eva, lavoro che accenna a continuare la riflessione del precedente Denise sullo svilimento dell’anima femminile attraverso lo sfruttamento sessuale del corpo, ma stavolta attraverso un’ardua metafora dall’Eden ai giorni nostri.
I corti della Sic scandagliati a metà della kermesse premono molto i polpastrelli anche sulla quotidianità della vita vera. Così Notte Romana di Valerio Ferrara ripropone in chiave seria la diatriba tra Roma Sud e Roma Nord, coatti versus pariolini, che siamo stati abituati a guardare ultimamente sui social con le Coliche e gli Actual ridendone con leggerezza scanzonata. Non siamo sugli smartphone adesso, ma sul grande schermo: infatti qui scatta il dramma della gelosia. In ballo una ragazza, una storia di corna e una serata che potrebbe prendere la piega sbagliata. Opera sanguigna e sincera.
Sempre in concorso, da Milano Est risponde Federico Demattè con il suo Inchei. Dei ragazzi di periferia pensano al futuro trasferimento dalle baracche a Berlino fantasticando su ciò che è stato e su quel che verrà. Qui ancora più verità tra le relazioni dei due fratelli protagonisti con la madre. Entrambi i corti sono figli di un cinema del reale che vuole restare ancorato a racconti provenienti dalla strada e indissolubilmente legati all’oggi, rappresentano due belle schegge di viva contemporaneità.
Per chiudere fa loro compagnia L’ultimo spegne la luce sempre di Tommaso Santambrogio. Titolo all’uopo perché l’ultimo di oggi. Restiamo a Milano, una coppia, Valentina Bellé e Yuri Casagrande Conti, resta chiusa fuori casa in piena notte, confinata sul ballatoio adorno di piante dove al posto del buon funzionamento delle chiavi emergeranno crepe nascoste e infelicità inutilmente accennate. Un piccolo racconto d’incomprensibilità reciproche con interpretazioni estremamente naturali.