I clorofluorocarburi (CFC) hanno un formidabile effetto climatico, noto da molto tempo: “una molecola di diclorofluorometano (CFC-12) è capace di intrappolare le radiazioni a onde lunghe molto meglio – più di diecimila volte meglio! – di una molecola di CO2” (Rosso, R., Effetto Serra: istruzioni per l’uso, 1994).
Nessuno dubitava che il Protocollo di Montreal del 1987 per la tutela dell’ozono atmosferico, messo in crisi dall’emissione di questi gas, fosse cosa buona e giusta. E neppure che potesse avere un benefico effetto di attenuazione del riscaldamento globale: “la riduzione imposta dai vincoli di produzione introdotta dal Protocollo di Montreal potrebbe ridurre tale contributo a 0.3 Watt a mero quadrato”, avevo scritto allora.
Un recente studio di simulazione climatica what if – cosa succede se… – ha dimostrato che il Protocollo di Montreal ha regalato anche di più all’umanità negli ultimi trent’anni. Nel presupposto di una crescita del 3% delle emissioni di CFC in atmosfera, a partire dal 1987, lo scenario odierno sarebbe affatto drammatico. La CO2 equivalente in atmosfera, oggi circa 420 parti per milione, sarebbe già schizzata di altre 165-215 parti per milione, con un riscaldamento ulteriore di 0,8 gradi centigradi. E, se l’uso dei CFC fosse continuato incontrollato, entro la fine del secolo il contributo dei CFC avrebbe aumentato il riscaldamento globale di altri 1,7 gradi centigradi. Ciò significa che le temperature sarebbero aumentate complessivamente di 2,5 gradi, solo a causa dal loro utilizzo.
Il continuo esaurimento dell’ozono – il gas che protegge il pianeta da livelli dannosi di radiazioni ultraviolette UV – avrebbe minato in modo massiccio la capacità della Terra di assorbire la CO2 atmosferica. La protezione dello strato di ozono ha preservato la vegetazione dagli effetti dannosi di un aumento dei raggi UV, quelli che ne compromettono la capacità di assorbire CO2. Entro la fine di questo secolo (2080-2099) avrebbero potuto esserci 325-690 miliardi di tonnellate in meno di carbonio nelle piante e nei suoli senza il Protocollo di Montreal. Questo cambiamento avrebbe potuto comportare ulteriori 115-235 parti per milione di CO2 equivalente, che avrebbe potuto portare a un ulteriore riscaldamento della temperatura superficiale media globale compreso tra mezzo grado e un grado Celsius.
L’efficacia del Protocollo, testimoniata dall’ultimo Rapporto del World Meteorological Organization pubblicato nel 2018 sul monitoraggio dell’ozono, è indubbia: “il buco dell’ozono antartico si sta richiudendo, pur continuando a verificarsi ogni anno; grazie al Protocollo di Montreal è stato evitato un impoverimento dell’ozono molto più grave nelle regioni polari”. E non è stata rilevata alcuna tendenza significativa nell’ozono totale tra le latitudini 60° sud e 60° nord nel periodo 1997-2016; anzi, i valori medi sono rimasti circa il due per cento al di sotto della media nel periodo precedente, 1964-1980. Al contrario, la simulazione what if mostra che, se non fosse intervenuto l’accordo di Montreal, entro fine secolo la riduzione dello strato di ozono sopra i tropici avrebbe potuto toccare livelli catastrofici, fino al 60% in meno rispetto a oggi.
Questi risultati offrono due indicazioni. La prima riguarda l’efficacia degli accordi internazionali sulle emissioni, oggetto di un giustificato scetticismo da parte di molti scienziati: talvolta funzionano! La seconda è ovvia: l’applicazione del protocollo va attentamente monitorata e fatta rispettare. Per esempio, la recrudescenza di emissioni di CFC-11 riscontrata negli ultimi quindici anni va attentamente controllata ed eliminata. Le future emissioni di CO2, metano e NOx saranno estremamente importanti per il futuro dello strato di ozono per i loro effetti sul clima e sulla chimica atmosferica. E mitigare delle emissioni di NOx potrebbe comportare un piccolo vantaggio anche per l’ozono.
Paul Crutzen, lo studioso di chimica dell’atmosfera che per primo diede l’allarme sul pericolo del buco dell’ozono e per questo ottenne il premio Nobel nel 1995, può essere soddisfatto: il suo lavoro è davvero servito all’umanità. Laureato in ingegneria civile, coniò anche il fortunato termine “Antropocene” che definisce la prima “era” nella quale le attività umane sono in grado di influenzare l’atmosfera e alterarne l’equilibrio. Paul è mancato qualche mese fa e ricordo con orgoglio che il Politecnico di Milano gli conferì, su mia proposta, la laurea honoris causa in Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio nel 2007.