Nei principali Comuni che vanno alle elezioni i beneficiari sono decine di migliaia. Per questo, nonostante l'assalto bipartisan a livello nazionale, gli aspiranti sindaci di centrodestra scelgono più il silenzio. Non ne parla nemmeno Michetti, che prima della candidatura la definiva "voto di scambio". Noto al fatto.it: "A livello inconscio gli elettori sono condizionati dalle posizioni espresse sul tema". Piepoli: "E' tema polemogenico, meglio non avvicinarsi"
Come sempre accade, anche il 3 e 4 ottobre – quando 12 milioni di cittadini saranno chiamati alle urne per le amministrative – il voto locale si intreccerà ai grandi temi del dibattito politico nazionale. Uno su tutti, l’assalto al reddito di cittadinanza, la misura di sostegno introdotta dal primo governo Conte che una parte della maggioranza (Italia viva e Lega in testa) vorrebbe cancellare perché “diseducativo” e “nemico del lavoro”. Ma fino a che punto il dibattito può influenzare il risultato nei Comuni? “Razionalmente, gran parte di chi va a votare sa che il sindaco non ha poteri in questo campo”, avverte al fattoquotidiano.it Antonio Noto, direttore dell’istituto demoscopico Noto Sondaggi. “Tuttavia esiste una variabile inconscia che porta gli elettori a farsi influenzare dalle posizioni espresse su una questione così concreta. A guardare i numeri sembrerebbe una battaglia comoda per il centrodestra, visto che due terzi degli italiani si dichiarano contrari al reddito: ma chiederne l’abolizione è rischioso se si cercano i voti delle periferie. Per questo i candidati cercano semplicemente di esporsi il meno possibile sul punto”.
Già, perché ci sono territori in cui il peso specifico del tema può rivelarsi decisivo. L’esempio più facile è quello della Campania, la Regione che ha di gran lunga il maggior numero assoluto di percettori: 753.187 al 10 agosto scorso (divisi in 291.589 nuclei familiari), con l’importo medio più alto d’Italia (620 euro su un massimo di 780). A ottobre si voterà per i Comuni di 4 capoluoghi su 5: Benevento, Caserta, Salerno e Napoli. Nell’area metropolitana partenopea, in particolare, le famiglie che ricevono il Rdc o la Pdc rappresentano il 16% della popolazione residente, a fronte di una media nazionale del 5%. E forse non è un caso, spiega Noto, che a Napoli il consenso del Movimento 5 stelle sia rimasto alto rispetto alla crisi patita in questi anni di governo nel resto d’Italia (un recente sondaggio lo dà in controtendenza come primo partito in città, ndr). Ma cosa dicono sull’argomento i più importanti candidati sindaco? Il favorito, l’ex ministro Gaetano Manfredi sostenuto da Pd, M5s e sinistra (ma anche da Italia viva) ha messo in chiaro da subito che il reddito “non solo va difeso ma va potenziato, perché ha permesso a tanti di uscire dalla soglia di povertà”. Opposto il pensiero del candidato del centrodestra Catello Maresca, che sfodera uno degli argomenti più abusati: “Va rivisto, è inaccettabile che i delinquenti percepiscano indebitamente l’assegno”. Antonio Bassolino sul sussidio spende parole di miele (“È indubbio che in città impoverite abbia avuto un suo senso: bisogna andare alle mense Caritas o al monte dei pegni per capire cosa è successo”). Al momento Manfredi stacca Maresca, tallonato da Bassolino.
Dopo Napoli, la città metropolitana con più beneficiari è Roma, che ne conta 205.666 (meno della metà) divisi in 103.733 nuclei familiari. La quota di popolazione che usufruisce del sostegno, però, è leggermente più bassa della media nazionale (4,72%) così come l’assegno medio (528 euro). Qui a giocarsi la poltrona di sindaco sono in quattro: due fieri avversari del reddito, Enrico Michetti e Carlo Calenda, e due (più o meno) sostenitori, Roberto Gualtieri e Virginia Raggi. E i numeri dicono che la sfida si giocherà nelle periferie, dove Michetti e Raggi partono avvantaggiati. Forse per questo, in campagna elettorale, il candidato del centrodestra è stato ben attento a non esporre il proprio pensiero, che invece aveva affidato con dovizia di particolari – prima della candidatura – alla “sua” Radio Radio: “Il reddito di cittadinanza è voto di scambio, perché chi lo percepisce, se non vota il Movimento 5 stelle, sa che lo perderà. Il voto non è più libero”. La misura, diceva, “viola la Costituzione, che è fondata sul lavoro”, e “incide sulla dignità delle persone per carpirne il voto“. Per quanto riguarda Calenda, poi, le sue intemerate anti-reddito non si contano più: nelle scorse settimane l’ex ministro è arrivato a proporre di impiegare forzatamente i percettori nella pulizia della città, trasformandoli in “spazzini di quartiere“.
Nella tornata di amministrative si voterà infine a Milano, Torino e Bologna. Nei tre centri i beneficiari di Rdc hanno un peso specifico inferiore rispetto al totale dei residenti, ma si parla comunque di decine di migliaia di elettori. A Milano lo percepiscono in 91.531 (il 2,5% della popolazione metropolitana) con un assegno medio di 470 euro a nucleo familiare; a Torino in 88.095 (il 4%) con 521 euro; a Bologna in 19.648 (l’1,9%) con 445 euro. Nel capoluogo lombardo, cuore produttivo del Paese, entrambi i papabili prossimi sindaci sono arruolati nelle schiere degli anti-Rdc. Recentemente Beppe Sala si è definito “perplesso da sempre” sulla misura, spiegando che “riproporla uguale sarebbe un errore” perché – dice – “lo scopo di aiutare a trovare lavoro” non è stato raggiunto. E Luca Bernardo? Non si è mai espresso, ma si può dare per scontato che la sua posizione sia in linea con quella critica del centrodestra che lo candida, a partire dal leader leghista Matteo Salvini. Anche qui, però, il silenzio del candidato forse non è un caso. “Meno gli aspiranti sindaci parlano del reddito, meglio è per loro“, sintetizza Nicola Piepoli, capo dell’omonimo istituto. “È un tema per natura polemogenico, suscettibile di creare polemica, perché tocca direttamente la vita delle persone. I candidati lo sanno e puntano a tenerlo fuori dal dibattito per evitare guai, da Napoli fino a Milano. E il presunto livello di benessere non c’entra nulla: il benessere, quello vero, non esiste più da nessuna parte”.