Gli industriali lamentano di non avere più abbastanza forza lavoro per soddisfare gli ordini. Non succede solo in Europa e negli Usa ma anche in Cina, come ha raccontato il Wall Street Journal. Con la particolarità che in questo caso a pesare è l’evoluzione del Paese verso una cosiddetta “economia avanzata”, che va di pari passo con un deciso spostamento della forza lavoro dall’industria al settore dei servizi. Così, molti giovani non vogliono più faticare alla catena di montaggio e preferiscono giocare le proprie carte nel mondo dai confini flessibili e sempre in movimento dei servizi: dai camerieri ai pronto consegna, dalla miriade di lavoretti collegati alla gig economy, fino alle nuove professioni legate allo sviluppo urbano e alla crescita del ceto medio. Con l’effetto collaterale che la disoccupazione giovanile, soprattutto nei grandi centri urbani, sta aumentando.
In Italia molto probabilmente questa situazione farebbe sprecare fiumi d’inchiostro sulla “generazione dei fannulloni”, che non fanno più lavori sporchi – magari per “colpa” di reddito di cittadinanza o altri sussidi. In Cina, invece, l’autunno si sta avvicinando con un tam tam martellante: la parola d’ordine è gongtong fuyu (ricchezza condivisa, prosperità condivisa) e non si può dare semplicemente dei fannulloni ai giovani, bensì capirne le ragioni e intercettare le tendenze in atto. Ne va del consenso per il Partito comunista.
Un passo indietro. Già nel 2018, va detto, l’ufficio nazionale di statistica ha rilevato che il settore dei servizi era diventato la fonte di occupazione più diffusa tra i mingong, i lavoratori migranti, superando così il manifatturiero e l’edilizia. Tra i motivi della riduzione di manodopera disponibile, c’è anche il fatto che molti di questi migranti non sono più tornati nei centri manifatturieri dopo l’esplosione del Covid, per paura di ammalarsi. Nel 2020 – riporta il Wall Street Journal – il numero di cinesi classificati come mingong è diminuito, per la prima volta in un decennio di oltre 5 milioni, attestandosi sui 285,6 milioni. Stiamo parlando di lavoratori migranti perché sono soprattutto loro il grande esercito industriale di riserva che negli ultimi 40 anni ha garantito il boom cinese. Oggi, oltre la metà di loro ha più di 41 anni e quelli con meno di 30 anni sono scesi al 23 per cento, dal 46 del 2008. Insomma, i migranti giovani sono sempre meno nonché poco disposti a lavorare in fabbrica. Ecco spiegata in parte la carenza di manodopera industriale. Ma oltre all’effetto Covid e allo sviluppo dei servizi, c’è anche una ragione di lungo periodo a ridurre la manodopera manifatturiera: la fine della rendita demografica.
Secondo l’ultimo censimento, la popolazione cinese in età lavorativa, cioè le persone tra i 15 e i 59 anni, è scesa nel 2020 a 894 milioni, cioè il 63% della popolazione totale. Nel 2010 erano 939 milioni, ovvero il 70% per cento di allora. Si prevede che la forza lavoro complessiva diminuirà di altri 35 milioni nei prossimi cinque anni, secondo stime ufficiali. Di fronte alla riduzione di manodopera disponibile, agli imprenditori del manifatturiero non resta che aumentare i salari e contrarre i margini di profitto, già messi a dura prova dalla crescita dei costi per le materie prime e le spedizioni. È un fenomeno non nuovo.
Nel 2018, a Yiwu, la città nota in quanto polo commerciale da cui provengono le merci a basso costo che invadono i mercati globali, un imprenditore che produceva festoni natalizi già si lamentava per l’aumento dei costi d’esportazione e dei prezzi delle materie prime, mentre incombeva anche la guerra commerciale voluta da Donald Trump. Era disposto a ridurre al massimo i margini di profitto pur di continuare a presidiare la sua fetta di mercato, che spaziava dagli Stati Uniti alla Russia. Intanto, ridefiniva costantemente i suoi festoni natalizi, cambiandone i colori sia per seguire le mode sia per utilizzare vernici meno inquinanti e, al tempo stesso, procedeva con l’automazione per ridurre la manodopera. Per i lavoratori che restavano, lui diceva che i salari non erano male: “Sono tutti in regola e guadagnano tra i 4mila e i 5mila yuan al mese (500-630 euro), guarda che non è poco per dei migranti rurali”. Il Covid doveva ancora arrivare.
Se la manodopera manifatturiera sembra scarseggiare, la Cina sembra produrre oggi colletti bianchi in eccesso. Quest’anno ci saranno 9 milioni di neo-laureati, difficilmente troveranno tutti lavori all’altezza delle loro aspettative. La disoccupazione urbana si attesta oggi al 5,1%, ma raggiunge il 16,2% tra i lavoratori compresi tra i 16 e i 24 anni. È un tasso di disoccupazione leggermente in calo rispetto ai picchi del 2020 dovuti alle conseguenze del Covid ma comunque alto rispetto allo standard cinese. Inoltre, la recente stretta su tutto il settore tecnologico – che per troppi anni era cresciuto esponenzialmente senza regole – rischia di creare ulteriore pressione sul mercato del lavoro. L’esempio più recente è il giro di vite sui corsi online, che potevano costituire uno sbocco professionale alternativo a molti giovani laureati.
A questo intreccio di problemi, il governo cinese sta cercando di rispondere con le politiche incluse nel piano quinquennale che arriva al 2025 e che sono comprese nella formula ombrello della “ricchezza condivisa”. Da un lato si cerca di scalare la catena del valore, con produzioni più innovative e tecnologiche, per dare lavoro ai giovani istruiti e aumentare la competitività del made in China sui mercati globali. Inoltre si procede con l’automazione in fabbrica. Ma questa transizione difficile non può realizzarsi senza trambusti, a meno che Pechino non metta finalmente mano al welfare. Una prima sterzata in direzione delle politiche sociali è arrivata il 17 agosto scorso, quando il presidente Xi Jinping ha insistito, in un discorso fatto al Comitato Centrale per gli Affari Finanziari ed Economici del Partito Comunista, su un “sistema di politiche pubbliche scientifiche, che consenta una distribuzione più equa del reddito”. Immediatamente, i media di stato si sono affrettati a spiegare che non si tratta di una “politica alla Robin Hood” che toglie ai ricchi per dare ai poveri, bensì di una nuova leva per lo sviluppo di tutti.
Una società più equa senza che si scomodi Robin Hood è, nelle intenzioni di Pechino, non solo la ricetta per incrementare la domanda interna, ma anche la possibile soluzione al calo demografico e, quindi, alla riduzione della forza lavoro disponibile. Insomma, cinesi meno stressati e più sicuri economicamente faranno più figli. Rientra in quest’ottica anche la recentissima campagna per tutelare la salute – soprattutto mentale – delle giovani generazioni. Il governo cinese ha per esempio deciso di abolire gli esami scolastici per i primi due anni delle scuole elementari. Inoltre saranno limitati per decreto i compiti a casa per i bambini della prima elementare, massimo un’ora e mezza di studio al giorno. Pare che ci sia un nesso stretto tra forsennata competizione fin dai primi anni di studio e il calo delle nascite, nel senso che i cinesi adulti del ceto medio, già stressati nel quotidiano sgomitare sul lavoro, non hanno voglia di fare figli destinati alle stesse pressioni fin dai 6 anni di età. In più, a caro prezzo, visto che per preparare esami continui bisogna fare lezioni private. Ecco quindi anche il giro di vite sull’insegnamento privato, che era diffusissimo e che creava ulteriore diseguaglianza, perché chi può pagarsi l’insegnante privato va avanti, gli altri no.
Nel dibattito corrente, si parla di una società delle “tre distribuzioni”: una distribuzione iniziale (chuci fenpei) costituita sostanzialmente dai profitti delle imprese, che riguarda “i più capaci” e si focalizza sull’efficienza; una distribuzione secondaria o redistribuzione (erci fenpei o zai fenpei), cioè le tasse e altre politiche del governo che devono creare una sicurezza sociale e si focalizzano sull’equità; una distribuzione terziaria (sanci fenpei), che rappresenta la responsabilità sociale ed è costituita da donazioni, filantropia, volontariato, tutte le forme di trasferimento di ricchezza da parte dei privati. La seconda e la terza sono finalizzate a “ridurre la distanza tra ricchi e poveri, creare una ricchezza condivisa” ed è su queste che ha messo l’accento Xi Jinping, che ha quindi spostato l’asse del discorso prevalente negli ultimi decenni: dagli investimenti ad alta intensità di capitale, bisogna passare a sviluppare i consumi alla base della società, come moltiplicatore della ricchezza e forma di redistribuzione.
Se è vero che anche nelle società liberalcapitaliste occidentali vige il meccanismo profitti-tassazione-beneficenza per tenere in piedi il corpo sociale, la peculiarità cinese è come sempre il fattore “P”, cioè la politica, il messaggio dall’alto che indica la linea. Non appena Xi Jinping ha fornito la ricetta, Tencent, la grande impresa It che è finita come le altre nel mirino per essersi espansa troppo e senza regole, ha annunciato il varo di un fondo per la “ricchezza condivisa” da 50 miliardi di yuan (6 miliardi e mezzo di euro), che sarà dedicato a migliorare le condizioni di vita dei cinesi a basso reddito. Il comunicato che annuncia la creazione del fondo spiega che in quanto azienda tecnologica che “ha beneficiato delle riforme economiche cinesi, Tencent è costantemente alla ricerca di modi per… restituire maggiormente alla società”. Anche Alibaba, colosso cinese dell’ecommerce, ha annunciato che risponderà alla chiamata del presidente Xi Jinping sulla prosperità comune e ha annunciato investimenti per 100 miliardi di yuan (15 miliardi di dollari) da destinare alla redistribuzione del reddito. Il fondatore della società Jack Ma è ritenuto essere persona più ricca del paese.
Intanto Pinduoduo, piattaforma di e-commerce in rapida espansione, promette di investire fino a 10 miliardi di yuan (un miliardo e trecento milioni di euro) per sviluppare agricoltura ed economia rurale. “Investire in agricoltura è bene per tutti, perché l’agricoltura è il nesso tra sicurezza e qualità alimentare, salute pubblica e sostenibilità ambientale”, ha dichiarato il presidente e amministratore delegato Chen Lei. Nel frattempo, la rivista Fortune rivela che quest’anno cinque dei più ricchi tycoon tecnologici cinesi hanno donato almeno 13 miliardi di dollari del proprio patrimonio a fondazioni e iniziative di beneficenza, somma che supera di gran lunga quelle degli anni precedenti. Siamo nell’era della generosità-spontanea-consigliata.