Una vittima la si può offendere dopo morta, la si può offendere con la narrazione distorta del suo assassino, la si può offendere estetizzandone ed erotizzandone la morte; la si può offendere nascondendo le origini del crimine che l’ha annientata, celando la verità dietro stereotipi frusti che continuano a essere rattoppati e riproposti sulla stampa.
È accaduto ancora. “La parola femminicidio – ha scritto in una nota D.i.Re donne in rete – non compare quasi mai nel racconto mediato dell’uccisione di Chiara Ugolini, di cui stanno emergendo in queste ore i dettagli. Piuttosto si insiste sull’aspetto fisico della vittima sottolineando la bellezza”. La parola femminicidio deve essere molto indigesta se resta serrata tra le dita e si strozza nella gola di tanti, troppi giornalisti e giornaliste che prediligono la narrazione morbosa della morte di una donna quando è giovane e avvenente. Oppure, continua la nota D.i.Re, immaginando l’ultimo suo pomeriggio di vita “pur non esistendo testimonianze dirette dei suoi movimenti e insistendo voyeuristicamente sul top indossato sul reggiseno dopo la doccia”.
L’articolo peggiore, paradossalmente, è a mio parere quello di Repubblica, il quotidiano che lo scorso autunno, pubblicò il decalogo sulla corretta narrazione del femminicidio, che aveva infiammato le polemiche tra redattori e redattrici. “Bella, e impossibile. Alta, bionda, una ragazza che camminava serena incontro alla vita, poi è arrivato l’uomo del piano di sotto. ‘Mi sono arrampicato sul suo balcone’, e se davvero è andata così, bisogna pensare a questa specie di scimmia cattiva che vuole sorprendere […]” Dunque meglio descrivere la vittima come “bella e impossibile”, rievocando il titolo di una canzone di Gianna Nannini e il mondo dell’intrattenimento? Suggerendo che la avvenenza o l’inaccessibilità di una giovane donna, fantasie della giornalista più che un dato di realtà, potessero essere la causa scatenante di una violenza con aspetti di crudeltà inaudita.
Dell’analisi sociale di un crimine che ogni tre/quattro giorni causa la morte di una donna e ogni giorno migliaia di violenze, c’è sempre meno traccia sulle pagine dei quotidiani, come se si fosse deciso, lassù a vertici delle redazioni, di girare pagina, di fare passi indietro. Come quelli che si fanno descrivendo l’assassino come una scimmia che si arrampica, deumanizzandolo al livello di un animale, privo di coscienza e pervaso da pulsioni incontrollabili, rispolverando il vecchio caro concetto di raptus.
Marcela Lagarde definì il femminicidio come “la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”. Il femminicidio è l’opposto della perdita di controllo ed è l’esercizio di controllo totale sul corpo e la vita di una donna. Quello straccio messo in bocca a Chiara non è stato solo uno strumento di morte ma di umiliazione.
Graziella Priulla sociologa della comunicazione e autrice di Parole Tossiche: Storie di ordinario sessismo ha pubblicato una breve riflessione sui social:
Come sarebbe bello se i giornalisti e le giornaliste facessero davvero il mestiere che si sono scelti. Quante verità sul potere potrebbero essere svelate.