Don Budge alza le braccia la cielo in maniera contenuta e sobria. Ha appena messo a segno l’ultimo punto contro il suo amico e compagno di doppio Gene Mako, necessario a conquistare gli Us Open. Per lui è il secondo titolo a New York dopo quello dell’anno prima. Ma questo del 1938 ha un sapore tutto particolare. È il trionfo che gli consegna il primo Grande Slam nella storia del tennis. Ma cosa vuol dire fare il “Grande Slam”? Semplice, significa vincere nello stesso anno solare Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open. I quattro tornei più importanti e difficili del tennis. Il termine è apparso per la prima volta sui giornali nel 1930 quando il leggendario golfista Bobby Jones ha trionfato nei Master inglese e americano. Dal golf al tennis il passaggio poi è stato breve.
È un’impresa insomma, di quelle che proiettano nell’epica sportiva e non sai quando arriverà né se avrai mai l’opportunità di vivere. A New York, nel 1938, nessuno lo sa ma l’erede di Don Budge è nato da poco più di un mese (il 9 agosto) e abita dall’altra parte del mondo, a Rockhampton, Queensland, Australia Nord-Orientale. Qui vive la famiglia Laver. Roy, allevatore della zona, nutre speranze sportive per i suoi figli. Ne avrà quattro, ma è il terzo quello che gli dà maggiori soddisfazioni. Charlie Hollis è il primo allenatore che rimane stupito dal terzogenito di Roy. Quando lo vede per la prima volta il bimbo è magro, bassino, scalzo ma è anche “mancino e ha l’occhio di un falco, colpirebbe una pallina anche dentro una miniera di carbone”. Un talento naturale insomma, a cui riescono cose impensabili. Quel bambino così esile si chiama Rod Laver e il Grande Slam lo vincerà addirittura due volte. Il più bello e inatteso è però il secondo, arrivato all’alba dell’Era Open, a sette anni dal primo e dopo un esilio dagli Slam durato ben sei stagioni. Il motivo? Il passaggio di Laver al professionismo.
È il 1969. Rod Laver va verso i 31 anni. In bilico tra maturità e declino, l’australiano è all’ultimo giro utile della carriera. La tecnica probabilmente non è mai stata così completa ma il fisico sta cominciando a presentare il conto. Agli Australian Open però Laver arriva di slancio fino alla semifinale. Qui trova il connazionale Tony Roche. Un match proibitivo. Non solo Roche è un grande giocatore ma è pure mancino. E da sempre Laver detesta giocare contro giocatori che usano la sua stessa mano. Per molti è la vera finale di quella edizione. Si gioca con oltre 40 gradi di temperatura per quattro ore e mezza, per un totale di 90 games. Laver vince i primi due set per 7-5 22-20 ma Roche rimonta e trascina la partita al quinto: 11-9 6-1. La svolta arriva su un rovescio tagliato di Laver. Roche valuta fuori la palla ma non il giudice di linea: “Credi – protesta l’australiano – che sia rimasto in questo forno per quattro ore per farmi prendere per il culo da te?”. La frustrazione e il nervosismo si traducono con l’errore banale a rete sul punto successivo. È il break che chiude di fatto la sfida: 6-3. In finale semplicemente non c’è partita. Laver ha di fronte il terraiolo spagnolo Andrés Gimeno, 6-3 6-4 7-5. E uno.
Cinque mesi dopo il circuito arriva a Parigi. A quel tempo il Roland Garros è l’unico Major che non si gioca sull’erba. Il suo mattone sbriciolato è quasi un altro sport. Ed è proprio qui che Laver mostra l’umiltà di adattare il proprio stile di gioco, abbracciando altri schemi tennistici. Non è un caso quindi se le prime difficoltà arrivano già nei primi turni. Nella seconda partita Dick Crealy è sopra di due set. Su quella superficie così lenta e polverosa la palla di Laver non viaggia allo stesso modo. Porta a casa il terzo set ma la pioggia arriva provvidenziale. Il giorno dopo è tutta un’altra storia. Crealy non riesce a trovare le stesse soluzioni e Laver vince facilmente: 6-2 6-4. Come spesso succede nel tennis, una volta scampato un pericolo, poi si veleggia verso il successo. Ed è proprio quello che accade. Laver mette in fila Marzano, Smith, Gimeno e Okker, prima di arrivare allo scontro con Ken Rosewall, già due volte vincitore al Roland Garros e campione in carica. Il pronostico lo vede sfavorito ma Laver sceglie il momento giusto per giocare il match migliore della carriera sul rosso. Tre set netti, 6-4 6-3 6-4. Una partita mai in discussione. E due.
La terza tappa è Wimbledon. Sull’erba di Church, Road Laver è il campione in carica e il grande favorito. Eppure anche stavolta i primi turni riservano delle insidie. L’indiano Premjit Lall lo domina nei primi due set. Un blackout prolungato prima del monologo: 6-3 6-0 6-0. Anche Stan Smith lo costringe al quinto set. Laver si fa recuperare due set di vantaggio ma poi ha la meglio. Il 6-3 finale contro l’americano è il lasciapassare per arrivare a un altro americano, Arthur Ashe. Siamo in semifinale e Ashe è salito alle cronache per essere diventato, l’anno prima, il primo giocatore di colore a vincere un Major a New York. La sua notorietà però non è soltanto per questo. Ashe è un grande tennista. Il primo set infatti è un dominio a stelle e strisce che finisce 6-2. La dura lezione subito è un campanello d’allarme che sveglia Laver dal torpore. Prima restituisce il 6-2 e poi dà avvio a una battaglia conclusa 9-7 per l’australiano. A questo punto il match è praticamente finito. Laver infligge ad Ashe un 6-0.
Questa partita è quella che, di fatto, gli consegna i Championships. In finale il connazionale Newcombe è un avversario ostico, ma nessuno pensa che Laver possa perdere il titolo, anche quando si trova un set pari e sotto di un break. Laver ha troppo più talento e questo si manifesta sotto forma di uno slice in cross strettissimo che pizzica la riga interna. Tutto il Center Court è in estasi, mentre Newcombe crolla psicologicamente. Non è solo il punto della partita ma anche quello del titolo: 6-4 5-7 6-4 6-4. Ora ne manca soltanto uno.
Forrest Hills, Us Open. Laver arriva esausto all’appuntamento con la storia. Passa di slancio i primi turni prima di incontrare Dennis Ralston negli ottavi, che cede solo al quinto dopo essersi trovato avanti due set a uno. Emerson viene battuto in quattro ma il punteggio (4-6 8-6 13-11 6-4) testimonia l’asprezza della battaglia. In semifinale poi Laver trova ancora Arthur Ashe ma questa volta sono sufficienti tre set. L’ultimo ostacolo è il primo che è stato incontrato lungo questa viaggio: Tony Roche. È il 9 settembre 1969. Il campo di gioco è una spugna piena d’acqua. Il primo set va per le lunghe e finisce 9-7 per Roche solo per un dettaglio. A metà set Laver ha deciso di cambiare le scarpe, indossando quelle chiodate. L’adattamento alla nuova calzatura gli è costato lo svantaggio iniziale ma gli ha regalato il Grande Slam.
Si, perché nei set successivi Roche fatica anche solo a stare in piedi, mentre Laver sembra volare sul terreno di gioco. Un parziale di 18 game a 5 che si chiude con un passante fuori e una pallina lanciata per aria: 6-1 6-2 6-2. Per Laver è l’ultimo Major, l’undicesimo della carriera. Il più importante. Oggi, 52 anni dopo quel pomeriggio piovoso a Forest Hills, Novak Djokovic sta cercando di compiere la stessa impresa. Gli mancano appena tre partite agli Us Open per centrare il quarto Grande Slam della storia. Il suo prossimo avversario è Matteo Berrettini.
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