di Carblogger
Lo so che il titolo è esagerato, ma anche Dante pensava all’Afghanistan quando scrisse: “Lasciate ogne speranza voi ch’intrate”. Mi serve per dire che oggi l’industria dell’auto si è impantanata nella crisi dei semiconduttori e batte in testa. Una guerra persa, anche per scelte precedenti sbagliate.
Quei microchip – a volte del valore di pochi dollari – sono diventati pane quotidiano per le auto moderne e ancora più per quelle elettrificate. Ma dalla fine dell’anno scorso scarseggiano sul mercato, provocando nel settore automotive mondiale stop alle produzioni e flop delle pianificazioni. Un pantano da cui l’industria dell’auto non uscirà in tempi brevi. Al Salone di Monaco (Iaa) i Ceo parlano del 2023.
In altre parole: se volete comprare domani un’auto nuova alla concessionaria sotto casa, vi sentirete rispondere in molti casi che per la consegna se ne parlerà fra mesi. Forse. E con tanti se e tanti ma.
La crisi dei chip è il risultato finale di un’altra invasione (come in Afghanistan): quella del Covid. I lockdown hanno fermato a lungo la produzione anche di chip, il 75% della quale è localizzata in Asia secondo il Ceo di Intel Pet Gelsinger, mentre contemporaneamente l’elettronica di consumo ne moltiplicava la richiesta per fronteggiare le esigenze dello smart working. Risultato: chip andati a ruba, approvvigionamenti da mercato nero per chi pagava (e pagherà) di più. Prendete le prime dieci aziende del mondo per capitalizzazione e capirete al volo i rapporti di forza.
Guardando a ritroso, Stati Uniti ed Europa hanno abbandonato questo settore perché era più conveniente produrre microprocessori in Asia, et voilà. Nel nostro paese basta ricordare la Texas Instruments di Rieti, anni d’oro.
Harald Kroeger, membro Cda di Bosch, sostiene che l’industria automotive avrebbe dovuto avere scorte più grandi di chip e non ordini a due settimane. Ma è esattamente quel che l’auto non può più fare dopo la rivoluzione del just in time, sistema inventato in Toyota e copiato (non esportato) nell’intera industria occidentale per sopravvivere dalla fine degli anni Ottanta.
Il just in time significa risparmio, efficienza, flessibilità. La carenza di chip è una contingenza che costa cara, ma tale rimane. Semmai una guerra persa da cui imparare: nel suo piccolo, la capacità di fare software in casa di Elon Musk per Tesla è una strada.
La normalizzazione ha bisogno di tempo, non di una miriade di nuovi stabilimenti dedicati ai chip. La prova del budino? Se lei fosse l’Unione europea con 20 miliardi di euro da investire sul settore, ha chiesto recentemente Automotive News Europe a Mattew Harrison, numero uno di Toyota Europe, li spenderebbe per una fabbrica di chip o per quattro fabbriche di celle per le batterie? La seconda, ha risposto correttamente Harrison.
E poi il just in time è come la democrazia: non si può esportare. L’Afghanistan è esagerato, ma torna.