Laureata in Biotecnologie mediche, Mariaceleste Aragona è professore associato e group leader all'università di Copenaghen. È partita da Porcia, vicino Pordenone, e ha studiato a Padova: "Devo moltissimo alla mia formazione italiana, il problema sono i soldi: sta al singolo trovarli. Ho la speranza di tornare, ma so che è una possibilità remota"
Le differenze principali tra l’Italia e la Danimarca? “Onestamente i soldi a disposizione per chi come me fa ricerca. E i processi di reclutamento, sicuramente più trasparenti”. Mariaceleste Aragona ha 35 anni ed è originaria di Porcia, in provincia di Pordenone. Nel 2014 è partita per Bruxelles, con un post-doc all’ULB (Université libre de Bruxelles). Dal 2020 è professore associato e group leader all’Università di Copenaghen, in Danimarca. “In fondo credo di avere ancora la speranza di tornare, un giorno. Ma so che questa probabilità è estremamente bassa”.
Laurea specialistica in Biotecnologie mediche, per Mariaceleste gli anni di formazione a Padova sono stati fondamentali: “Ho imparato un metodo, il rigore scientifico e a lavorare sodo”, ricorda al Fatto.it. Quando arriva a Bruxelles per la prima volta si sente subito a casa. “Qui ho avuto la possibilità di aprire i miei orizzonti, di essere multidisciplinare”, racconta “e grazie alle borse di studio vinte di perseguire progetti di ricerca in maniera del tutto indipendente”.
Mariaceleste spiega che all’inizio il lockdown è stato uno shock, ma in Belgio la ricerca è considerata lavoro essenziale. In poco tempo, così, è riuscita ad ottenere permessi ufficiali per potersi spostare e raggiungere il laboratorio. Quando è scoppiata la pandemia Mariaceleste era in viaggio: mentre finiva il suo ultimo lavoro da post-doc all’ULB programmava visite e colloqui di lavoro in diverse università europee. Alcuni sono stati annullati. “Per fortuna avevo già ricevuto due offerte, una da Londra e una da Copenaghen. Ho scelto la seconda”.
Oggi Mariaceleste dirige un gruppo di ricerca al Novo Nordisk Foundation Center for Stem Cell Biology di Copenaghen, specializzato nella ricerca sulle cellule staminali epiteliali, per sviluppare nuove terapie di medicina ricostruttiva. “Mi è stato offerto uno spazio di laboratorio già attrezzato in un centro di ricerca con servizi e strumenti all’avanguardia che posso usare gratuitamente, un gruzzolo importante di fondi destinati al reclutamento di personale qualificato e supporto nella gestione delle richieste per ulteriori finanziamenti statali ed europei”, spiega. La sveglia suona alle 6.30, arriva tutti i giorni in bici (“mi sono abituata a qualsiasi condizione meteo”) e – quando può – si gode il mare danese (“abito a pochi minuti dalla spiaggia, ma niente in comune col Mediterraneo”).
Se oggi Mariaceleste è professore associato e group leader in un ateneo danese merito è anche dell’università italiana, spiega. “In Italia la formazione è di altissimo livello. Io devo tutto agli anni passati all’Università di Padova, dove ho costruito le solide fondamenta del mio percorso successivo. E io non sono un’eccezione. Si pensi alle storie di tanti emigrati italiani nella vostra rubrica. Basta vedere i centri di ricerca di tutto il mondo, pieni di ragazze e ragazzi italiani che lavorano sodo e all’estero ricevono compensi adeguati alla loro formazione”. Per Mariaceleste non è il sistema universitario italiano a dover cambiare: il problema sono i soldi destinati alla ricerca. “Uno stipendio da post-doc in Belgio è sicuramente più vantaggioso di quello italiano, continua, e uno stipendio da professore associato in Danimarca è ancora più alto. La grossa differenza sono proprio i fondi destinati alla ricerca. In Italia sono pochissimi i centri che possono offrire uno start-up grant a giovani per iniziare nuove linee di ricerca”.
Pensa di tornare, un giorno? Mariaceleste ha difficoltà a rispondere a questa domanda. “Ho fatto diversi colloqui in vari centri di ricerca e università europee in cui ti offrono, oltre al tuo stipendio, anche un pacchetto di finanziamento iniziale solido che permette a un giovane di costruire il gruppo e il laboratorio in base alle proprie idee. Purtroppo in Italia queste posizioni sono poche e difficilmente vengono offerte delle condizioni competitive: viene concesso uno spazio, ma poi sta al singolo trovare i fondi”. E continua: “In Italia i finanziamenti per la ricerca sono pochi, i fondi pubblici scarseggiano e quelli privati non sono paragonabili alle somme offerte oltre confine. Spesso in Italia fare ricerca non è considerato un lavoro vero e proprio: viene deriso, incompreso. La produzione di conoscenza non è vista come un’opportunità di sviluppo, come accade – per esperienza diretta – in Belgio e Danimarca”. Mariaceleste ammira moltissimo gli amici e i colleghi che sono riusciti a rientrare attraverso mille difficoltà. “Probabilmente – conclude – io ho scelto la strada più comoda”.