La settimana prossima dovrebbe riunirsi la Commissione tecnica dell'Osservatorio nazionale del lavoro agile. Ma il ministro ha già dichiarato che la maggior parte dei dipendenti dovrà tornare in sede. Mariano Corso, responsabile dell'Osservatorio smartworking del Politecnico di Milano e componente della Commissione: "Scelta legata non ad esigenze dei vari rami dell'amministrazione, ma al teorema populistico dei furbetti del cartellino”. Finora nessun avanzamento nella trattativa relativa al rinnovo dei contratti
Il redde rationem sullo smart working nella pubblica amministrazione potrebbe arrivare già la settimana prossima. Al ministero guidato da Renato Brunetta dovrebbe infatti riunirsi la Commissione tecnica dell’Osservatorio nazionale del lavoro agile. Il condizionale è d’obbligo in un momento in cui non sono poche le questioni sul tavolo, inclusi gli eventuali aumenti per la produttività. Quel che è certo è che a Palazzo non tira una buona aria dopo che il ministro ha pubblicamente dichiarato che intende far rientrare in ufficio la maggioranza dei lavoratori pubblici. Alla base della decisione due motivazioni: da un lato la convinzione che ci sia una minore efficienza della pubblica amministrazione in modalità di lavoro agile, dall’altro l’idea che il ritorno in ufficio di oltre tre milioni di lavoratori possa sostenere l’economia nel segmento trasporti e nella ristorazione, fortemente penalizzati durante l’emergenza sanitaria.
Il punto però è che il rientro in blocco in ufficio potrebbe essere una netta inversione di marcia, senza distinzioni per i diversi comparti dell’amministrazione. “Soprattutto nel pubblico sono stati fatti grandi passi in avanti sia nell’uso delle tecnologie che nell’autonomia dei lavoratori. Una scelta simile dovrebbe quantomeno essere suffragata da dati e non può certamente essere presa in maniera generalizzata senza tener conto delle tipologie di lavoro e della diversità delle amministrazioni”, spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell‘Osservatorio smartworking del Politecnico di Milano, nonché componente della Commissione tecnica. Il tetto di lavoro agile al 15% butterebbe, infatti, a mare tutto il lavoro fatto dalle amministrazioni per riorganizzare l’attività. Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria, la Commissione ha seguito 162 amministrazioni per la stesura dei Piani organizzativi del lavoro agile attraverso il Portale della performance del Dipartimento della Funzione pubblica.
Nei progetti, come richiesto dalla legge (77/2020), sono stati individuate le modalità di smartworking prevedendo che “almeno il 60 per cento (il tetto minimo è del 30% in assenza di Pola) dei dipendenti possa avvalersene”, come si legge nella norma. Con tanto di misure organizzative, requisiti tecnologici, percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati. E non poteva essere altrimenti visto che, a marzo 2020, nel pieno dell’emergenza sanitaria, era in smartworking il 56% dei lavoratori pubblici, per un totale di 1,8 milioni di persone. “Tornare indietro a questo punto è semplicemente svilente – riprende Corso – Tanto più che la scelta sembra sostanzialmente legata ad esigenze endogene dei vari rami dell’amministrazione, ma al teorema populistico dei furbetti del cartellino”.
Inoltre, al di là delle dichiarazioni d’intenti, ad oltre un anno e mezzo dal lockdown, non c’è stato alcun avanzamento nella trattativa relativa al rinnovo dei contratti del pubblico impiego. Ci sono diversi tavoli aperti, ma in nessuno di questi è stata raggiunta un’intesa che regolamenti il lavoro agile che al momento resta un’eccezione emergenziale in scadenza a fine anno. “Nessun settore ha rinnovato gli accordi in cui si definendo i termini del lavoro agile con obiettivi e misurazioni di produttività”, spiega Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil. Eppure il tema non è da poco visto che lo smart working doveva servire a far emergere sacche di inefficienza della pubblica amministrazione, cambiare i modelli organizzativi e favorire il merito. Argomenti rilevanti nel momento in cui la Pubblica amministrazione sta gestendo un rilevante passaggio generazionale con l’ingresso di 500mila nuove unità (su 3,2 milioni di lavoratori totali), ad alta competenza, ma con contratto a termine come previsto dal Pnrr.
“L’assenza del lavoro agile rischia di limitare l’attrattività dell’impiego pubblico che ha già di per sé altri vincoli come il tempo determinato e gli stipendi mediamente più contenuti rispetto al settore privato. E’ invece oggi quanto mai importante attirare oggi i migliori talenti all’interno dell’amministrazione pubblica. Non possiamo permetterci di sbagliare”, riprende Corso. “Attendiamo di vedere cosa il ministro intende fare ma la tendenza mi sembra per un rientro scollegato dalle misurazioni di efficienza e di efficacia del lavoro agile”, evidenzia Scacchetti che chiede un confronto con il governo per decidere il da farsi sulla base di elementi concreti, senza generalizzazioni. Il sindacato si augura un dialogo laico, aperto e costruttivo con il governo per parlare di tutti i temi del lavoro agile ad iniziare dal diritto alla disconnessione, alla gestione degli orari, agli obiettivi e alle sanzioni. “Altrimenti c’è il rischio di una semplice regressione”, conclude Scacchetti. Soprattutto nel settore pubblico dove, a maggio 2021, erano in modalità di lavoro agile 1,2 milioni di dipendenti (il 37,5% del totale). Ma il ministro sembra inamovibile. Del resto già prima di tornare alla guida della funzione pubblica, Brunetta aveva spiegato al mensile Fq Millennium di considerare il lavoro agile nella pubblica amministrazione una sorta di “villeggiatura per i lavoratori”.