Ormai è diventata una convinzione bipartisan, diffusa sia tra i Democratici che tra i Repubblicani: l’interventismo americano in Medio Oriente, la cosiddetta “esportazione della democrazia”, è stata una strategia fallimentare. Vi si oppongono, ormai, solo particolari gruppi d’interesse economico che lucrano sulle guerre. È questa, spiega a Ilfattoquotidiano.it Lorenzo Vidino, direttore del programma sull’estremismo alla George Washington University, la lezione impartita dagli ultimi venti anni di storia, dagli attentati dell’11 settembre ad oggi, alla più grande potenza militare al mondo. In mezzo ci sono stati la disastrosa guerra in Afghanistan, una sconfitta cocente tanto quanto lo fu il Vietnam, l’invasione dell’Iraq e la stagione del terrorismo in America ed Europa. Con il ritiro definitivo da Kabul, il 31 agosto scorso, questa stagione si è conclusa: “Anche la propaganda terroristica cambierà di conseguenza – spiega l’esperto – Si passerà dal combattere l’invasore all’esaltazione per averlo cacciato. E, forse, l’estremismo islamico tornerà a combattere soprattutto ‘il nemico vicino’, i regimi regionali in alcuni casi alleati di Washington, e non più ‘il nemico lontano'”. Perché, allora, siamo rimasti così a lungo in Afghanistan dopo l’uccisione di Osama bin Laden? “Calcoli sbagliati, amministrazioni che non hanno avuto il coraggio di dichiarare la sconfitta e, è un fattore che non può essere ignorato, interessi economici di particolari gruppi di potere e lobby”.
Sono diversi i fattori che hanno portato le ultime tre amministrazioni americane a considerare la strategia inaugurata da George W. Bush un fallimento. Non solo l’incapacità evidente di ricreare un sistema democratico di stampo occidentale nell’area, ma anche i mutati interessi geopolitici degli Stati Uniti stessi: “Oggi lo sguardo americano volge a ovest, sulle sponde del Pacifico, in funzione anti-cinese, come dimostrato in maniera evidente dalla presidenza Trump. Un approccio che, però, è stato mantenuto anche da Joe Biden. Questo perché la battaglia per gli interessi economici si combatte lì e inoltre, rispetto a venti anni fa, gli Usa non sono più dipendenti dal petrolio mediorientale. Adesso anche loro sono grandi produttori”.
Dall’esperienza americana hanno imparato anche gli altri competitor internazionali, dalla Russia, che in Afghanistan ha subito una pesante sconfitta nel corso degli anni Ottanta, alla Cina. “Nessuna di queste due potenze ha intenzione di rimpiazzare gli Stati Uniti con una presenza militare nell’area – dice l’analista – Hanno imparato anche loro dal fallimento americano. Non è così che si muove Pechino, loro perseguono obiettivi esclusivamente economici, non sono interessati a cambiare la società. Ed è probabilmente anche questa una delle ragioni del successo. È più probabile che alcune potenze regionali abbiano certe ambizioni, penso a Paesi come la Turchia o l’Iran“.
L’Europa, invece, ha la grande occasione per capire che è arrivato il momento di staccare il cordone ombelicale che la lega ancora troppo a Washington. “I Paesi europei devono capire ciò che gli alleati regionali degli Usa hanno già capito da tempo: che gli Stati uniti non sono un alleato così affidabile come si pensava. Lo dimostra il fatto che l’America First trumpiano non è stata una stagione passeggera, come si pensava, ma è stato ripreso de facto anche da Biden. È arrivato il momento che Bruxelles inizi a pensare seriamente a una politica estera e di difesa propria, pur non dimenticando l’alleanza che ci lega all’America”.
Mentre si dovrà capire come poter sostenere la popolazione afghana, tornata a distanza di venti anni ad essere governata dai Taliban, con tutte le inevitabili conseguenze in tema di diritti umani, un aspetto positivo del ritiro definitivo dall’area sarà una minore pressione sui Paesi occidentali da parte della propaganda terroristica. Non si potrà più parlare di un “invasore”, al massimo di un invasore che è stato cacciato. “Nell’immediato assisteremo all’esaltazione dell’impresa afghana da parte dei gruppi islamisti. Diranno che ci sono voluti venti anni, ma che sono riusciti di nuovo a cacciare l’invasore – continua Vidino – Negli anni Novanta al-Qaeda compì una vera e propria rivoluzione, spostò l’attenzione del jihadismo mondiale dal ‘nemico vicino’, quindi Israele e altri Paesi dell’area, al ‘nemico lontano’ che questi regimi sosteneva, ossia gli Stati Uniti. L’11 settembre fu la conseguenza di tutto ciò, solo colpendo il ‘nemico lontano’ si poteva indebolire anche quello vicino che da lui dipende. Oggi, con il definitivo ritiro occidentale dall’Afghanistan, la propaganda terroristica tornerà a concentrarsi sui Paesi vicini. Ovvio che l’America rimarrà sempre un obiettivo, se ne è andata solo fisicamente ma mantiene strette alleanze con Israele, i Paesi del Golfo, la Giordania, il Marocco“.
Ma se è ormai chiaro il motivo del ritiro americano dall’Afghanistan, resta più difficile da comprendere perché questo non sia avvenuto dieci anni fa, dopo l’uccisione del leader di al-Qaeda in Pakistan. Sia Obama che Trump, fino a Biden, hanno sempre dichiarato che l’obiettivo della guerra era da considerarsi concluso con il blitz di Abbottabad, nel 2011, ma nel Paese la coalizione è rimasta fino a oggi, nonostante non avessimo “un piano di Nation building“: “Innanzitutto – conclude Vidino -, un conto è ciò che si dice al pubblico e un altro ciò che si conosce all’interno delle amministrazioni e delle agenzie nazionali. Inoltre, abbiamo assistito a una nuova sindrome del Vietnam, niente di nuovo, amministrazioni che fanno passare anni prima di convincersi a riconoscere, anche se non esplicitamente, la sconfitta. Si tenta sempre di compiere un tentativo in più per salvare il salvabile. Infine, inutile negarlo, le pressioni interne, gli interessi e le lobby sono un fattore che va considerato. Buona parte dei soldi spesi in Afghanistan sono tornati in America nelle tasche delle grandi compagnie nel campo della Difesa e della tecnologia che hanno un proprio apparato lobbistico”.