La situazione si è fatta piuttosto ingarbugliata. Tanto per la scuderia quanto per il pilota. La notizia è arrivata nel pomeriggio del 16 agosto 1991 e ha lasciato tutti a bocca aperta: Bertrand Gachot è stato condannato a 18 mesi di prigione. Proprio ora che aveva conquistato i primi punti al volante della Jordan. I suoi guai erano iniziati a dicembre dell’anno prima, a Londra. La sua macchina era stata coinvolta in un piccolo incidente vicino ad Hyde Park. Ma la contestazione del danno non era stata esattamente amichevole. Un tassista aveva aperto la portiera e aveva estratto Gachot dalla sua Alfa Romeo. Poi lo aveva minacciato agitando un pugno chiuso in direzione della sua faccia. Il pilota belga si era sentito in pericolo. E aveva reagito. Aveva tirato fuori dalla tasca uno spray al peperoncino e l’aveva spruzzato sulla faccia dell’avversario. Ma la faccenda non era finita lì. Perché Gachot non sapeva che nel Regno Unito quelle bombolette erano equiparate a un’arma. Così all’improvviso si era ritrovato in un mare di guai. Dall’adrenalina della pista alla prigione di Brixton.

La Formula 1 si indigna, alza la voce. Ma alla fine tutto quello che può fare è inviare un telegramma di solidarietà. Lo firmano tutti: piloti, responsabili dei team, rappresentanti delle aziende di pneumatici, giornalisti. Poi per tutti arriva il momento di andare avanti. La Jordan deve trovare un nuovo pilota da affiancare ad Andrea De Cesaris. E la scelta si rivela molto già difficile del previsto. In un primo momento la scuderia contatta Stefan Johannson. Solo che le trattative non vanno a buon fine. Serve un altro nome. Anche perché il 25 agosto si corre il GP del Belgio. Flavio Briatore, a capo della Benetton Ford, dà un consiglio a Eddie Jordan. Gli parla di un ragazzo tedesco di 22 anni. Si chiama Michael Schumacher, ha i modi schivi e la faccia pulita. Ma, soprattutto, ha un talento straordinario. L’irlandese ringrazia ma passa avanti. “È troppo giovane, viene da vetture troppo diverse”, dice.

Anche Willi Weber suggerisce un nome a Eddie Jordan. Gli racconta di un ragazzo tedesco di 22 anni. Si chiama Michael Schumacher, ha i modi schivi e la faccia pulita. Ma, soprattutto, ha un talento straordinario. Stavolta però l’irlandese si ferma un attimo a pensare. È incerto. Così domanda: “Ma almeno conosce la pista di Spa? Ci ha mai corso?”. Weber stira le labbra in un sorriso e lo rassicura: “La conosce come le sue tasche”. È una bugia. E anche abbastanza grande. Perché Michael su quella pista non ci ha mai messo piede. A facilitare la trattativa ci ha pensato la Mercedes, che si è detta a garantire una dote di circa 300 milioni per far fare esperienza in Formula 1 a Schumacher.

Prima di salire sul volante della Jordan, il tedesco sale sul sellino di una bicicletta. Pedala lentamente sull’asfalto di Spa. Con il destro, mentre studia le traiettorie delle curve. Con il sinistro, mentre memorizza i punti in cui pigiare forte sull’acceleratore. Qualche ora più tardi si mette alla guida. Chiude le qualifiche al settimo posto, incastrato fra la Benetton di Nelson Piquet e quella di Roberto Moreno. È un risultato che per qualcuno ha dell’incredibile. La domenica Schumacher scatta veloce alla partenza. Ma la sua gara dura quasi ottocento metri. La frizione della sua Jordan cede all’improvviso, sulla salita dopo l’Eau Rouge. Il tedesco accosta, scende dall’auto, saluta i tifosi che lo applaudono. Sarà per la prossima volta. O forse no. Perché è in quel momento che finisce il romanzo di formazione di Schumacher, che il suo futuro assume i contorni della spy-story. Le cose intorno a lui cambiano in fretta. Forse anche troppo.

Flavio Briatore, che lo aveva consigliato alla Jordan, ora vuole indietro il suo suggerimento. E visto che l’8 settembre si corre il Gran Premio d’Italia, non c’è tempo da perdere. Il geometra vola a Londra, incontra Weber e intavola la trattativa. Quattro giorni prima della gara viene annunciato il cambio di sedile. La Benetton licenzia Roberto Moreno e lo sostituisce con Michael Schumacher. Solo che la Jordan non ha nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire la sua pepita d’oro. È l’inizio di un braccio di ferro surreale, di una piccola guerra fredda fra scuderie. La Jordan iscrive Schumacher per il GP di Monza. La Benetton iscrive Schumacher per il GP di Monza. Il giovedì il box della Benetton è chiuso ermeticamente. Non può entrare nessuno. Neanche i responsabili della Pirelli che devono mettere a punto la strategia per le gomme. Le voci girano incontrollate. Qualcuno afferma che quella privacy esagerata sia un modo per nascondere le due vetture. Quella di Moreno sarebbe stata preparata per Schumacher. E quella di Piquet addirittura per Alessandro Zanardi, leader della Formula 3000 e test driver della Benetton.

La Jordan fa ricorso d’urgenza. Moreno invece si appella al tribunale del lavoro di Monza. In un primo momento sembra spuntarla il brasiliano. Perché il pretore dà ragione al pilota. È una fase di stallo. Briatore propone a Moreno un accordo: visto che a fine anno lascerà comunque la scuderia, tanto vale anticipare l’addio. Dietro il pagamento dello stipendio completo e di un pingue bonus, ovviamente. Non c’è verso di chiudere la trattativa. Senza contare che si sta aprendo una terza via, tanto grottesca quanto probabile: alla fine il conteso Schumacher potrebbe restare a piedi. La notte precedente all’apertura del weekend di gara Briatore tenta il tutto per tutto. “Ho lottato per Schumacher – ha raccontato qualche tempo fa – eravamo a Villa d’Este, con Eddie Jordan e Bernie Ecclestone. Fu la prima volta che vidi Bernie ubriaco, che saltava dal mio divano a quello di Eddie per cercare di risolvere la questione. Questa era la Formula 1. Bernie non aveva idea di chi fosse Michael Schumacher. Nessuno era convinto della scelta di Michael, mi dicevano che era troppo giovane, troppo questo, troppo quello. Io ero molto determinato, tutti erano dubbiosi”.

La riunione è estenuante. Va avanti fino alle tre del mattino. Ma è fruttuosa. Le due scuderie trovano un accordo. Schumacher passa alla Benetton. Moreno incassa mezzo milione di dollari fra arretrati e incentivo e si accomoda sul sedile della Jordan. Inizialmente per un Gran Premio, poi si vedrà. Eddie Jordan non è contento. E non smette di sottolinearlo. “La Mercedes ha pagato per far correre Schumacher ma non so a chi siano andati i soldi”, dice. “L’asino lo puoi portare al fiume per contratto, ma non puoi obbligarlo a bere”, insinua. Il tedesco sale per la prima volta a bordo della Benetton e chiude le qualifiche al settimo posto. Qualcuno inizia a chiamarlo il Senna del Duemila. Fino a quando Ayrton non decide di parlare, di schierarsi al fianco del connazionale Moreno. “Noi piloti non facciamo gruppo, e allora dispongono di noi a piacere – dice – Chi si può difendere? Io, Mansell, Prost, Alesi, Piquet, diciamo due altri. Poi sono tutti in balia di chi paga. Questo non è bello. Anzi, è brutto. Non ho detto di essere disgustato, ma dispiaciuto“. E ancora: “Nel passato ho avuto a che fare anche io con il potere e mi sono sentito molto solo. Per questo adesso sto con Moreno. Ma cosa possiamo fare in pochi?”. Il giorno dopo Schumacher sgomita nel gruppone. Stavolta non c’è la frizione a fermarlo, così chiude al quinto posto. Sono i primi punti della sua carriera, la prima roccia sulla quale fondare il suo personalissimo culto.

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