La nuova Politica Agricola Comune avrebbe certamente potuto essere più ambiziosa ma ormai è quasi fatta. Dopo il voto nelle commissioni Agricoltura e Ambiente del Parlamento, a novembre sarà la volta dell’approvazione definitiva in plenaria. Restano una serie di occasioni mancate, come la percentuale poco ambiziosa dei fondi destinati agli ecosistemi e la conferma di uno status quo che vede l’80% dei sussidi andare al 20% delle aziende agricole più grandi. Si è usato il freno a mano persino sul nuovo terzo pilastro, ossia la ‘condizionalità sociale’, che si aggiunge a quelli degli ‘Aiuti diretti’ e dello ‘Sviluppo Rurale’ e che dovrebbe impedire l’accesso agli aiuti a chi viola i diritti dei lavoratori. A questo punto potrebbero fare la differenza i Piani strategici nazionali, a cui molto è affidato. Si è appena tenuta la seconda riunione del Tavolo del Partenariato, presieduto dal ministro delle Politiche Agricole, Stefano Patuanelli, per arrivare alla redazione del piano, da presentare alla Commissione Ue entro la fine del 2021. Una partita importantissima: degli oltre 386 miliardi di euro in sette anni (circa il 33% del Bilancio Ue) ce ne sono più di 38 per l’Italia (circa 50 con la quota di cofinanziamento nazionale e regionale). Restano molti nodi da sciogliere su come spenderli, nonostante i tre anni di negoziazione complicata e l’accordo politico (al ribasso) raggiunto poi a giugno 2021, tra Commissione, Europarlamento e Consiglio sui tre regolamenti che compongono la nuova Pac 2023-2027 (Piani Strategici Nazionali, che riunisce quelli storici su pagamenti diretti e sviluppo rurale, Organizzazione comune dei mercati e Regolamento orizzontale su finanziamento, gestione e monitoraggio della Pac, ndr).
IL PECCATO ORIGINALE E LE OCCASIONI MANCATE – Sarà che il negoziato è partito su un presupposto sbagliato. Perché se alla fine della scorsa legislatura la Commissione Agricoltura dell’Europarlamento aveva votato la sua posizione su tutti e tre i regolamenti, nel frattempo la ‘nuova’ Commissione Ue guidata da Ursula Von der Leyen ha cambiato l’agenda politica europea, con l’adozione del Green Deal europeo (gennaio 2020) e della Biodiversity Strategy e Farm to Fork Strategy (maggio 2020). Eppure la nuova Commissione non ha ritenuto necessario presentare una nuova proposta, che fosse più in linea con la nuova agenda politica dell’Ue rispetto a quella presentata a giugno 2018 e già aspramente criticata (e bocciata dalla Corte dei Conti). Da lì si è ripartiti. Un tentativo è stato fatto quando, a maggio 2020, su pressione dell’Europarlamento, l’organo esecutivo dell’Ue ha presentato a Bruxelles un altro documento, nel quale si cercava proprio una coerenza con il Green Deal, ma la Pac ha seguito un’altra strada, fino alla seduta plenaria del Parlamento europeo di ottobre 2020, quando è stata votata una proposta di compromesso presentata in extremis dai tre principali gruppi politici al Parlamento europeo (Ppe , S&D e Renew Europe) divenuta la base da cui è partito il negoziato del Trilogo Ue.
LE GRANDI AZIENDE RESTANO PRIVILEGIATE – Anche la nuova Pac, nonostante le diverse novità, sarà soprattutto basata sulla logica delle sovvenzioni erogate in base agli ettari di produzione. Per quanto riguarda il primo pilastro (i pagamenti diretti), quel testo prevedeva che almeno il 60% delle risorse andassero a pagamenti settoriali e misure di sostegno al reddito che non rispondono a criteri ambientali. Dunque finiscono soprattutto alle grandi aziende che promuovono l’agricoltura intensiva. È naufragata anche l’ipotesi di introdurre il capping obbligatorio, un tetto massimo all’importo di cui le aziende di maggiori dimensioni possono beneficiare. Il Parlamento proponeva di fissarlo a 100mila euro, con regressività a partire da 60mila euro, ma il Consiglio si è messo di traverso. Non ci sarà limite, quindi, ai sussidi per le grandi aziende, anche se è previsto un obbligo del 10% del budget dedicato a pagamenti diretti che dovrà essere redistribuito tra le aziende più piccole. Sono previste, però, deroghe per gli Stati membri, che possono dimostrare di aver soddisfatto i bisogni redistributivi attraverso altre misure. “I grandi colossi dell’agribusiness continueranno a ricevere miliardi di soldi pubblici senza dover cambiare le proprie pratiche agricole, mentre i piccoli continueranno a scomparire” commenta Eleonora Evi, eurodeputata e co-portavoce nazionale di Europa Verde.
ECO-SCHEMI, I RISCHI DELLA FLESSIBILITÀ – Dall’altra parte ci sono gli eco-schemi, ossia i finanziamenti per gli agricoltori che presentano progetti legati a pratiche rispettose dell’ambiente. Il Parlamento chiedeva che si arrivasse al 30% del primo pilastro (circa 58 miliardi di euro), mentre il Consiglio partiva da una quota inferiore al 20% (quasi 39 miliardi). Poi è arrivata la proposta della presidenza portoghese del Consiglio Ue di una riserva ‘verde’ per gli aiuti diretti al 22% nel 2023 e 2024 e del 25% dal 2025. Alla fine, agli eco-sistemi andrà il 25% delle dotazioni nazionali per i pagamenti diretti, ma anche in questo caso con diverse flessibilità. A iniziare proprio da un tetto al 20% tra il 2023 e il 2024. Un passo in avanti, va pur ricordato, rispetto a quanto indicato dall’ex ministra delle Politiche Agricole, Teresa Bellanova, che non voleva affatto percentuali vincolanti. Tradotto, significa 49 miliardi in 5 anni, ma gli Stati membri potranno restare anche al di sotto del 20% per gli eco-schemi, se compensano (ed ecco le flessibilità) con maggiori interventi in favore di clima e ambiente nel secondo pilastro. E anche qui c’è un problema. Perché la quota di investimenti green nello ‘Sviluppo rurale’ è fissata al 35% del FEARS (compresi i travasi, appunto), inferiore rispetto persino alla media attuale che per i Paesi Ue è al 43%. Insomma, una tagliola sull’ambizione.
IL PROBLEMA DEGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI – Il rischio è che gli eco-schemi per migliorare il benessere degli animali, ad esempio, si trasformino in sussidi per gli allevamenti intensivi. Eppure durante il percorso della nuova Pac sono stati sempre fermati i tentativi di tagliare i finanziamenti a questo tipo di allevamenti e limitare densità e numero di animali ammassati nelle aziende (che pure li ricevono). “Con la nuova Pac – spiega a ilfattoquotidiano.it Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia – il rischio è che non solo non si proceda a una progressiva diminuzione delle consistenze zootecniche con politiche che incoraggino l’adozione di diete a base principalmente vegetale, ma che i sussidi a questo settore addirittura aumentino. Potrebbe avvenire anche grazie agli eco-schemi, tramite presunti interventi di miglioramento del benessere animale, che potrebbero invece diventare uno stratagemma per mantenere in essere lo status quo”.
LE EMISSIONI CHE NON DIMINUISCONO – Non è un caso se, pochi giorni prima dell’accordo di giugno, la Corte dei Conti ha pubblicato una relazione secondo cui i circa 100 miliardi di euro di fondi (oltre un quarto della Politica agricola comune 2014-2020) destinati all’azione per il clima non hanno avuto impatti sulle emissioni di gas a effetto serra prodotte dall’agricoltura, che non diminuiscono dal 2010. Metà di queste emissioni arrivano dagli allevamenti del bestiame, che rappresentano il 17% delle emissioni totali dell’Ue. “Rispetto all’uso dei fondi Pac – aggiunge Federica Ferrario – i dati mostrano che tra i 28,5 miliardi e i 32,6 miliardi di euro vanno a beneficio degli allevamenti sempre più intensivi o delle aziende che coltivano prodotti destinati alla mangimistica (tra il 18% e il 20% del budget annuale complessivo dell’Ue) e che oltre il 71% di tutta la superficie agricola dell’Ue (coltivazioni, seminativi, prati per foraggio e pascoli) è destinata all’alimentazione del bestiame”.
LA CONDIZIONALITÀ SOCIALE, PER ORA VOLONTARIA – Un altro elemento di scontro con il Consiglio è stato quello della condizionalità sociale, una serie di misure per assicurare che i fondi non vadano alle aziende che violano i diritti dei lavoratori e, quindi, anche al mondo del caporalato. Un elemento di novità certamente importante, come sottolineato sia dall’ex ministro Paolo De Castro, coordinatore del Gruppo S&D alla commissione Agricoltura del Parlamento europeo, sia dal ministro Patuanelli. Il punto è che dal 2023 al 2025 l’applicazione della condizionalità sociale sarà solo volontaria. Solo dopo dovrebbe diventare obbligatoria ma, nel frattempo, la Commissione Ue dovrà monitorare l’impatto della misura nei vari Paesi dove sarà stata già applicata, per apportare eventuali correttivi.