"Dovremmo chiedere alle aziende una ‘Certificazione di sostenibilità’, ossia un’autocertificazione volontaria in cui si dichiara che non utilizza per i suoi prodotti ingredienti di dubbio effetto sulla nostra salute o non ancora testati sulla persona", spiega la dottoressa Pucci Romano, dermatologa e Presidente di Skineco, Associazione scientifica di ecodermatologia
La coscienza ecologica del consumatore spesso si imbatte – o piuttosto sbatte – sulle liste degli ingredienti dei prodotti per l’igiene e cura della persona. È il “famigerato” elenco Inci, che dichiara con termini tecnici ostici, latini o, nella migliore delle ipotesi, inglesi, il contenuto, per esempio, di un sapone, shampoo o crema da corpo. INCI sta per International Nomenclature of Cosmetic Ingredients, la denominazione internazionale che indica la lista delle sostanze presenti nel cosmetico, obbligatorio dal 1997 per tutti i cosmetici dell’Unione europea. “Questa sigla indica l’elenco in ordine decrescente delle sostanze”, ci spiega Lucia Cuffaro, già Presidente del Movimento per la decrescita felice e conduttrice della rubrica ecologica di Unomattina in famiglia su Raiuno (autrice insieme a Elena Tioli della guida per i consumatori Occhio all’etichetta!, Macroedizioni). “Se un ingrediente è posto in cima, significa che è presente in grande quantità, se è tra gli ultimi contribuisce al massimo per l’1%. Il cruccio è che, spesso, proprio alla fine compaiono i principi attivi tanto decantati da alcune aziende e scritti a caratteri cubitali. Le sostanze utilizzate in concentrazione inferiore all’1% possono essere menzionate in ordine sparso alla fine dell’elenco. Generalmente gli ingredienti di origine sintetica sono indicati in inglese, mentre quelli di origine vegetale in latino, secondo la classificazione botanica di Linneo. E massima attenzione dovremmo avere per i primi cinque elementi elencati nell’INCI, perché rappresentano il 50-80% del totale del cosmetico”.
Tanta schiuma per cosa? – Se quindi leggendo l’etichetta di un sapone o shampoo troviamo come primo ingrediente acqua, al secondo posto molto probabilmente incapperemo nei tensioattivi derivati dal petrolio. “Quello più usato e che fa anche tanta schiuma (e inquinamento) è il Sodium Lauryl Sulfate (SLS)”, sottolinea Cuffaro. “In seconda posizione c’è il Sodium Laureth Sulfate (SLES), di poco più leggero. Si tratta di sostanze che in concentrazioni alte e utilizzate per lungo tempo, possono causare irritazioni della pelle, oltre che punti neri, arrossamenti, allergie e pelle secca”. Tra i tensioattivi schiumogeni che possono provocare diversi problemi ci sono quelli della famiglia delle ammine e indicati con le sigle MEA, TEA, DEA o Triethanolamine. “Contenuti in tantissimi shampoo sono facilmente assorbiti dalla pelle e possono generare disidratazione, reazioni irritanti e allergiche, nonché favorire la formazione di acne e delle odiate squame biancastre della forfora”, avverte Cuffaro. Dobbiamo porre particolare attenzione anche ai Mineral Oil, i finti oli idratanti provenienti dalla raffinazione del greggio, l’Alcohol, che in alte concentrazioni può determinare secchezza.
Le ambiguità dei parabeni – Tra gli altri componenti più problematici vanno segnalati i parabeni. Ma a che servono? “Sono impiegati nei prodotti cosmetici come conservanti. Alcuni di questi sono stati vietati per legge perché hanno rivelato un’azione di interferenza ormonale (interferenti endocrini), influendo negativamente sulla nostra salute”, ci spiega la dottoressa Pucci Romano, dermatologa e Presidente di Skineco, Associazione scientifica di ecodermatologia. “Di fatto ci sono quattro categorie di parabeni: quelli autorizzati; altri che sono sotto osservazione o non ancora indagati e quindi utilizzati, e infine vietati. Su queste sostanze c’è ancora troppo liberismo in merito al loro utilizzo”. Il rischio è legato all’accumulo di queste sostanze nel tempo, soprattutto nei bambini. “Non ci sono infatti studi sugli effetti a lungo termine sulla nostra salute”.
Mi spalmo un po’ di silicone – Hanno migliorato di molto la fruibilità dei cosmetici, per esempio le creme da corpo o i solari. Aggiungere i siliconi a un prodotto significa infatti renderlo più spalmabile e gradevole per la pelle. “Lo rendono più fruibile, non resta appicciato addosso, come nei solari, dove si è arrivati a una spalmabilità quadruplicata, evitando che la sabbia resti appiccicata addosso”, precisa Romano. Il rovescio della medaglia? Alla lunga l’impiego di siliconi ricopre l’epidermide di un sottilissimo strato di questa sostanza, che determina una barriera impermeabile alla traspirazione cutanea e, quindi, secchezza. Come riconoscerli in etichetta? “Tutti i termini che finiscono con -one, ma anche il Cyclopentasiloxane, indicano presenza di siliconi”, continua Romano. “Un compromesso nella scelta finale è cercare prodotti dove i siliconi sono indicati in fondo alla lista degli ingredienti”. E in alternativa? “Usare polimeri vegetali, che ovviamente costano di più. Ma una svolta può darla proprio il consumatore che, scegliendo linee di prodotti senza siliconi, potrebbe fare crescere un nuovo tipo di mercato”.
Profumo di allergeni – Tutte le sostanze possono essere potenzialmente allergizzanti. Dipende anche dalla risposta personale al singolo componente di un prodotto. Ce ne sono però alcune che presentano rischi più alti, come le profumazioni aggiunte a un sapone o a uno shampoo, e indicate in etichetta con il termine molto vago di parfum. “Possono essere presenti in numero variabile e, in alcuni casi, il rischio di provocare allergie è particolarmente elevato”, prosegue Romano, “mi riferisco per esempio al limonene, eugenolo, geraniolo, cinnamal, citral”. In totale sono 26 le sostanze ad alto rischio allergenico, che andrebbero sempre segnalate in etichetta. Entrando più in dettaglio, la Direttiva 2003/15/CE ha introdotto l’obbligo di indicare in etichetta i 26 allergeni (qui per consultare l’elenco completo). L’indicazione della loro presenza è obbligatoria se la loro concentrazione supera lo 0,001% nei prodotti leave-on (prodotti che non vengono risciacquati) o quando supera lo 0,01% nei prodotti rinse-off (prodotti che vengono risciacquati).
Ma come detto già per i parabeni, per tutti gli ingredienti più critici, al di là dei valori ammessi per legge vale il discorso che poco o nulla si sa dell’”effetto cocktail” che nel tempo l’insieme di questi elementi provoca sulla nostra salute. Considerando tutte queste eccezioni e le situazioni non ben definite in ambito normativo, come si può tutelare maggiormente il consumatore finale? “È una questione etica”, conclude Romano. “Se a un’azienda chiedessimo una ‘Certificazione di sostenibilità’, ossia un’autocertificazione volontaria in cui si dichiara che non utilizza per i suoi prodotti ingredienti di dubbio effetto sulla nostra salute o non ancora testati sulla persona, osservando quindi il principio di precauzione, di sicuro faremmo l’interesse del consumatore. Ma anche dell’azienda stessa, che migliorerebbe così la sua immagine di cura delle persone”.