L’atto di chiusura delle indagini depositato nelle scorse ore dalla procura di Santa Maria Capua Vetere in merito alle violenze avvenute nel carcere della cittadina il 6 aprile 2020 è lungo 176 pagine scritte a piccoli caratteri. Quando il successivo 20 aprile, a seguito dei racconti di tanti famigliari di detenuti che ci avevano contattati, inviammo ai magistrati il nostro esposto, segnalandolo anche al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, pur avendo intuito le non consuete dimensioni degli eventi non credevamo di scoperchiare una mattanza di tali proporzioni.

L’atto individua l’associazione Antigone (insieme al Garante nazionale delle persone private della libertà e alla Onlus Il carcere possibile) tra le persone offese, cosa che accade quando i fatti sono di una gravità tale da riguardare in prima persona la società tutta e in particolare un’associazione che ha nella propria mission la tutela dei diritti umani. Siamo dunque parte di questo procedimento penale, che vede come vittime 177 persone detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere all’aprile dello scorso anno. Nell’atto si leggono i nomi, i cognomi, le date di nascita. Qualcuno è poco più che ventenne, qualcun altro ha ben superato i cinquant’anni. Alcuni sono stranieri – nigeriani, albanesi, rumeni, spagnoli, tunisini – molti sono italiani. E poi vi è l’elenco degli indagati, composto da 120 nomi, quasi tutti uomini ma anche qualche donna. Le età sono in generale maggiori.

Numeri che fanno impressione, che danno il segno di un carcere trasformato in un campo di battaglia, quella cui abbiamo assistito nelle immagini raccolte dalle videocamere interne e messe in salvo da un magistrato solerte all’insaputa degli interessati.

Sono ben 85 i capi nei quali si divide il documento, che segnano altrettante accuse diverse che variamente riguardano in maniera incrociata e sovrapposta gli indagati. Si va dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, fino alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni e alla tortura: “…con una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse, degradanti ed inumane, prolungatesi per circa quattro ore del giorno 6 aprile 2020, consistite in percosse, pestaggi, lesioni – attuate con colpi di manganello, calci schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento e prostrazione, induzione a rimanere in piedi per un tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro – e connotate da imposizione di condotte umilianti (quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli)…”.

Emerge dall’atto come l’istituto non fosse nuovo alla violenza: se questa era la reazione a una pacifica protesta dei detenuti che chiedevano mascherine per proteggersi dal virus, “circa 15/10 giorni prima del 6 aprile, a seguito di una lite avvenuta tra due detenuti ristretti presso la sesta sezione del Reparto Nilo, 50 agenti circa della polizia penitenziaria, muniti di scudi e manganelli (…), sopravvenivano e picchiavano indistintamente i detenuti”, uno in particolare “mentre questi cercava di proteggere un detenuto più anziano”.

Lungo l’elenco degli indagati per falso che, riportando dolori e traumi all’esame del medico, affermavano di essere stati aggrediti da parte di detenuti, “così fornendo un ingannevole contributo informativo nel contesto del rapporto di alleanza terapeutica con il sanitario”.

Vi è poi la morte di Hakimi Lamine, “deceduto presso il Reparto Danubio in data 4.05.2020, a seguito delle torture e maltrattamenti subiti a partire dalle violenze del 6 aprile e delle indebite condizioni di isolamento sociale in cui era stato indebitamente sottoposto (…), modalità di segregazione devastante per la sua affezione di disturbo borderline di Personalità e inducente un peggioramento della psicopatologia fino all’emergere di una franca sintomatologia psicotica caratterizzata da angoscia incoercibile e dispercezioni, situazione di abbandono, morale e materiale, tale da indurlo alla assunzione incontrollata di terapia farmacologica (neurolettici e benzodiazepine) – terapia inadeguata per dosaggio e priva di qualsiasi riformulazione in relazione all’evidenza clinica – la quale, in decisiva sinergia con la sostanza stupefacente buprenorfina, intenzionalmente assunta, determinava un ‘edema polmonare acuto’, con terminale ‘arresto cardio-respiratorio’, così da cagionarne la morte”.

No, quando quel 20 di aprile depositammo il nostro esposto non credevamo di scoperchiare tutto questo.

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