Per il tribunale di Amsterdam esiste una chiara "relazione di dipendenza lavorativa" tra l'azienda e i guidatori, ai quali va quindi applicato il contratto collettivo dei tassisti. Replicata la sentenza di febbraio della Corte Suprema britannica, ma il gruppo si prepara alla battaglia legale
Nuova tegola per Uber sul fronte del trattamento del personale. Il colosso statunitense, noto principalmente per il servizio di auto con conducenti, è stato condannato oggi dal Tribunale civile di Amsterdam, a pagare alla Federazione dei sindacati olandesi 50mila euro di danni per non aver aderito al contratto collettivo di lavoro dei tassisti. D’ora in poi la società dovrà quindi applicarlo a tutti i suoi autisti che operano nei Paesi Bassi. La decisione segna uno spartiacque per le attività di Uber nel paese, riconoscendo i conducenti come lavoratori dipendenti e garantendo loro una retribuzione più alta, oltre a maggiori diritti in caso di malattia o licenziamento. L’azienda ha annunciato che farà ricorso.
Secondo i giudici fiamminghi, Uber considerava i suoi lavoratori come autonomi “solo sulla carta”, ma li trattava di fatto da dipendenti, come emerge da diverse funzionalità dell’ “app” che, secondo i giudici, indicano una “relazione di dipendenza lavorativa“. Tra le clausole impugnate ci sono quella che impone al guidatore di poter rifiutare solo alcune corse se non vuole essere disconnesso dal sistema, così come il metodo di gestione dei reclami, su cui Uber decide unilateralmente scavallando i conducenti. “Il rapporto giuridico tra Uber e gli autisti soddisfa tutte le caratteristiche di un contratto di lavoro”, si legge nella sentenza in cui si sottolinea anche come i driver siano legati “agli algoritmi dell’app e alle tariffe stabilite dalla società”.
“Questo verdetto mostra ciò che diciamo da anni: Uber è un datore di lavoro e gli autisti sono dipendenti, quindi Uber deve rispettare il contratto collettivo sul traffico dei taxi”, ha commentato Zakaria Boufangacha, vicepresidente della Federazione dei sindacati olandesi, che in precedenza aveva citato in giudizio la società definendo una farsa la presunta autonomia dei guidatori. “Siamo delusi da questa decisione perché sappiamo che la stragrande maggioranza dei conducenti desidera rimanere indipendente”, ha detto il direttore generale del colosso per il Nord Europa Maurits Schonfeld, spiegando che “nell’interesse dei conducenti, faremo appello alla decisione del tribunale, continuando anche a migliorare il lavoro sulla piattaforma nei Paesi Bassi”.
Quello in Olanda è solo l’ultimo colpo assestato in sede giudiziaria al modello della gig economy di cui Uber è uno dei principali rappresentanti. Il 19 febbraio 2021 la Corte Suprema del Regno Unito ha respinto all’unanimità il ricorso del gruppo sullo status di lavoratori dei suoi autisti, ratificando così definitivamente le posizioni dei tribunali britannici. In sostanza, anche in Gran Bretagna, l’azienda è stata costretta a riconoscere come “dipendenti” tutti i suoi autisti locali, circa 70 mila persone, garantendo loro un salario minimo, le vacanze pagate e, se soddisfano i requisiti, una pensione. In Germania, invece, dopo le controversie legali sulla concorrenza di questo servizio con quello dei taxi “regolari”, Uber opera come piattaforma di intermediazione mentre i viaggi sono gestiti da società di autonoleggio, in cui gli autisti vengono per lo più assunti a tempo indeterminato.