“I Talebani ci hanno sparato addosso mentre stavamo filmando le celebrazioni per il Giorno dell’Indipendenza dell’Afghanistan, il 19 agosto scorso. Il mio collega è rimasto ferito alla gamba da un proiettile, per fortuna non in maniera gravissima. Non c’è futuro per i giornalisti qui. Lancio un appello affinché qualcuno ci tiri fuori da questo inferno”. Mustafa Nikzad ha 24 anni, è originario di Kabul, di etnia tagika e fino al mese scorso ha svolto il suo lavoro di giornalista e filmmaker freelance lavorando nella scuderia del celebre regista afghano con passaporto britannico Khyber Khan. Un bravo giornalista con la passione dei documentari, entrato in un network di valore grazie alle sue ottime capacità professionali. Un lavoro part-time, ma con l’obiettivo di trasformarlo nella sua ragione di vita, lasciando definitivamente quello di impiegato in banca, sempre a mezzo servizio. Il ‘sacco’ del Paese servito dalla coalizione internazionale su un vassoio agli ‘Studenti coranici’ ha cambiato le cose, tra cui i piani di Mustafa.
Il giovane documentarista, contattato dal Fatto, torna all’episodio della sparatoria avvenuta il 19 agosto mentre si trovava sulla Wazir Akbar Khan Hill, la zona più ricca di Kabul, sede di molte ambasciate, tra cui quella americana: “Eravamo un gruppo di giornalisti e operatori quel giorno e stavamo facendo delle riprese, tra cui gli assembramenti di giovani e le proteste contro il nuovo regime dell’Emirato Islamico appena instaurato. Inizialmente la situazione era tranquilla, ma quando la presenza dei Talebani è andata aumentando gli scontri sono diventati intensi e la situazione si è fatta molto pericolosa. I miliziani hanno iniziato a sparare sulla folla e c’è stato un fuggi fuggi generale. Scappando, ci siano divisi in cerca di un rifugio e lì ci siamo accorti che l’obiettivo degli spari eravamo diventati proprio noi giornalisti. Lungo un tratto di strada in discesa il mio amico e collega, Sirus Amer (anche lui 24enne, ndr.), è stato colpito a una gamba. Lo abbiamo recuperato, messo in auto e portato nel più vicino ospedale disponibile. La nostra vita è cambiata quel giorno assieme alla percezione diventata certezza di essere ormai in pericolo costante e di non avere alternative alla fuga dall’Afghanistan”.
Nelle due settimane successive Mustafa Nikzad ha tentato ogni strada praticabile per mettere lui e i membri della sua famiglia su uno degli aerei della coalizione in partenza dallo scalo internazionale della capitale: “Khyber Khan è riuscito a tornare nel Regno Unito perché in possesso del passaporto britannico, ma non ha potuto fare nulla per noi – aggiunge il giornalista -. Non posso descrivere ciò che ho visto all’aeroporto in quei giorni. Follia pura, scene di guerriglia, tra scontri a fuoco, disperazione e il sangue dell’attentato. Non c’è stato modo di salire su alcun aereo. Adesso sto cercando di ogni modo di poter uscire dall’Afghanistan, se non con tutta la famiglia almeno io, per poi aiutarli a raggiungermi in un qualsiasi Paese occidentale. Per me qui non c’è più futuro, la mia vita è a rischio”. Dopo il clamore della drammatica fuga degli ‘internazionali’ e dei collaboratori stretti di ambasciate e contingenti militari, adesso in molti sperano in una fase 2 dell’evacuazione. Mustafa, così come il suo amico e collega rimasto ferito, è in possesso della application per la P1, Priority 1, introdotta dalle autorità statunitensi in vista di un possibile espatrio.
Nikzad, dopo lo spavento corso il 19 agosto si è nascosto coi colleghi in un edificio alla periferia di Kabul e soltanto nei giorni scorsi è tornato nella casa dove vivono i genitori e le due sorelle minori. Da un mese, come è normale che sia, ha dovuto mollare entrambi i lavori: quello di giornalista dopo la sparatoria, a seguire l’altro impiego, con un sistema bancario comunque in disfacimento. Il 24enne è molto preoccupato: “Stiamo facendo di tutto per trovare un aggancio e lasciare l’Afghanistan. Ripeto, per noi giornalisti non c’è più futuro. Non vi fate illudere dalle dichiarazioni dei vertici Talebani, quando i riflettori sul nostro Paese si saranno spenti e il Paese non sarà più uno showcase (vetrina, ndr,) il terrore si diffonderà, verranno a bussare davvero porta a porta e ci saranno regolamenti di conti. In alcune aree più periferiche del paese sta già accadendo. Ci sono stati omicidi di nostri colleghi nella provincia di Mazar-i-Sharif, esecuzioni sommarie, addirittura decapitazioni, abbiamo le prove. Basta uscire dal centro di Kabul e tutto cambia, le violenze avvengono nel silenzio generale e sarà sempre peggio, a Ghazni, Kandahar, Herat e nei villaggi più remoti”. Infine un nuovo, disperato appello: “Chiedo all’Italia, così come per qualsiasi altro Paese europeo, di aiutarci a uscire da qui, ne va della nostra stessa vita”, ribadisce Mustafa Nikzad.