La ripresa a pieno regime delle attività produttive, a seguito del controllo della pandemia ottenuto con la vaccinazione di massa ancora incorso, ha trascinato con sé un’inquietante impennata d’infortuni mortali, giunti in questi giorni all’evidenza della cronaca, che immancabilmente, come accaduto nel passato in occasione di analoghi eventi a forte impatto emotivo, rimettono in discussione l’intero assetto istituzionale della prevenzione negli ambienti di lavoro.

A questo rituale non poteva sottrarsi il magistrato Bruno Giordano recentemente incaricato alla direzione della Agenzia che dovrebbe accorpare le attività di vigilanza in capo a Ispettorato del Lavoro, Inail e Inps. Rimarrebbero però escluse quelle attribuite alle Regioni attraverso le asl, in forza della Legge 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale che, con i loro specifici Servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, esercitano il controllo tecnico sull’osservanza della complessa normativa raccolta nel Testo Unico del decreto legislativo 81/2008.

Bruno Giordano, indubbiamente magistrato meritevole di grande stima professionale, ha lamentato in alcune sue dichiarazioni pubbliche, raccolte anche da questo stesso giornale, la debolezza di questi Servizi e la loro difficoltà nel rimanere indipendenti dalla politica locale.

Ho avuto occasione d’incrociarlo nel lontano passato quando era gip presso il Tribunale di Milano nei primi anni 90, insieme con i suoi colleghi Michele Di Lecce, Claudio Castelli, Angelo Culotta ed altri ancora che, prima del nuovo codice di Procedura Penale del 1989, avevano di fatto istituito presso il Tribunale di Milano un vero e proprio pool di esperti nel settore dell’igiene e delle sicurezza del lavoro creando un asse virtuale di specifica competenza che, partendo da Torino con Raffaele Guariniello, dopo Milano raggiungeva Brescia con Vincenzo Cottinelli e Firenze con Beniamino Deidda, determinando una sorta di effetto alone su una discreta parte della magistratura italiana che per tanti anni aveva archiviato le poche denunce loro pervenute in materia di sicurezza sul lavoro con la fatidica formula della “tragica fatalità”.

Quindi una vera e propria rivoluzione culturale per una categoria professionale che per tanti anni aveva preferito guardare da un’altra parte, nonostante il nostro Paese disponesse già di una legislazione specifica a tutela del lavoro penalmente sanzionata e fondata su robusti principi costituzionali tanto da essere giudicata tra le più avanzate del mondo.

Fino agli anni 70 la curva del Pil era però corsa parallela alla curva dei danni alla salute dei lavoratori senza creare alcuno scandalo o semplice sussulto a livello istituzionale. Era il tempo in cui l’intera materia della sicurezza del lavoro, ricordiamolo, sottostava all’egida del Ministero del Lavoro con le sue articolazioni territoriali rappresentate appunto dagli Ispettorati Provinciali del Lavoro che apparivano tecnicamente e culturalmente inadeguati ad esercitare un’effettiva azione impositiva sulle imprese pur avendone facoltà in forza delle funzioni di polizia giudiziaria che attribuiva loro poteri di accesso, diffida, disposizione, denuncia e sequestro.

Nel momento in cui tutta questa materia con le relative competenze di vigilanza viene trasferita alle Usl con la legge istitutiva del SSN, si assiste ad un epocale salto di qualità testimoniato dal fiorire improvviso di una giurisprudenza della Corte di Cassazione che originava da eventi processuali organizzati in cluster proprio intorno a quell’asse geografica che collegava Torino-Milano-Brescia-Firenze dove per altro più forti erano i Servizi delle Usl.

Correvano gli anni che, pur nel rispetto dei reciproci ruoli, avevano visto cooperare funzionalmente la nuova generazione di operatori della prevenzione delle usl, organizzati poi nella Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione (Snop), con quella di giovani magistrati intenzionati a rendere effettivo il principio de “La Legge è uguale per tutti” che campeggiava disatteso in materia nelle aule di giustizia. Numerosi furono le iniziative seminariali congiunte tra Snop e sezioni territoriali della Associazione Nazionale magistrati (Anm). Un dialogo duratoper tutti gli anni 90, aperto e simmetrico in cui l’azione del giudicare e del prevenire fu coltivata in un rapporto quasi quotidiano. Attenzione quindi “a non buttare il bambino con l’acqua sporca”.

Le fasi alte della storia della medicina del lavoro sono state quelle in cui essa si è aperta al mondo, avvalendosi dell’approccio antropologico-sociale e facendo dell’interdisciplinarietà la propria bandiera. Di contro, le fasi basse sono state quelle del ripiegamento su sé stessa, ieri nella clinica orientata all’angusta logica dell’indennizzo, oggi nella verifica asettica di formali adempimenti di legge diventati anacronistici in un mutato mercato del lavoro dove i rischi maggiori si annidano in un esercito di lavoratori quasi invisibili. Sono quelli che sfuggono al controllo del sindacato e dei servizi territoriali di prevenzione, entrambi organizzati in funzione di un mondo del lavoro che non c’è più e che danno segno di sé solo quando assurgono agli onori mediatici della cronaca nera.

Questo il punto su cui riflettere.

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