La mancanza cronica dei camionisti e i problemi burocratici alle frontiere non permettono le importazioni delle sostanze usate per lo smaltimento di liquidi inquinanti: così il governo di Boris Johnson permette ad alcune società di disfarsi dei liquami direttamente in mare o nei corsi d'acqua. È solo l'ultimo disservizio causato dall'uscita dall'Ue del Regno Unito. "Molti fattori si sono uniti e hanno creato una tempesta perfetta" dice a ilfattoquotidiano.it Matthew Fell, chief policy director della Confindustria britannica
Aziende che possono gettare acque reflue nei fiumi, ospedali che devono sospendere gli esami del sangue per mancanza di provette, e il mancato ritiro dell’immondizia cittadina per carenza di camionisti. Sono alcuni degli effetti collaterali di una Brexit che dopo anni di grovigli politici e burocratici adesso è arrivata al sodo. E non a caso il governo, nel tentativo di ridurre i disagi, ha deciso di rinviare al 2022 i controlli sull’import-export di prodotti farmaceutici e fitosanitari e quelli su prodotti animali e cibo, incluse lasagne e pizza, che avrebbero dovuto scattare dal 1 ottobre tra i due lati della Manica. Dopo aver siglato gli accordi commerciali post Brexit, Londra e Bruxelles corrono ai ripari per salvare le imprese, già penalizzate dalle nuove barriere burocratiche e dall’impatto penalizzante della pandemia. Una scappatoia per il governo britannico, che si sta trovando a fare i conti con ritardi alle frontiere e carenza di camionisti che hanno portato all’interruzione di intere filiere di servizi essenziali. A entrare con troppa lentezza entro il confine britannico, per penuria di camionisti, sono state appunto le riserve di solfato ferrico, un sale utilizzato nel trattamento delle acque reflue e delle fognature prima di essere versate in mari e fiumi. Con una mossa discutibile, il DEFRA britannico (Dipartimento per l’Ambiente, Alimentazione e Affari Rurali) è stato costretto a emanare una nota (Regulatory Position Statement, RPS) per esentare alcune aziende dalle regole sulla dispersione degli scarichi industriali nell’ambiente. In sostanza, una deroga che consente a determinate aziende meno inquinanti di liberarsi delle acque di scarico e di quelle fognarie versandole direttamente nei fiumi.
La nota del DEFRA specifica che il solfato ferrico è utilizzato solo negli stadi finali del trattamento delle ‘acque nere’ per ridurre i livelli di fosforo, mentre la deroga non riguarda il trattamento primario e secondario delle acque fognarie che dunque, se non trattate, non potranno essere scaricate nell’ambiente. A quanto pare sarà una deroga limitata nel tempo, di cui si possono avvalere solo le aziende in grado di dimostrare di avere basso impatto ambientale e previa autorizzazione dell’Agenzia Ambientale. Interpellato da ilfattoquotididiano.it, il DEFRA ha comunicato che al momento nessuna azienda ha richiesto il permesso di utilizzare la deroga (RPS) e che il governo britannico sta continuando a lavorare con le compagnie che gestiscono le acque reflue muovendo passi su come estendere le consegne del solfato ferrico oltre l’orario in cui sono operative. Quello chimico è uno dei settori in cui la cronica carenza di camionisti, causata da Brexit e dalla pandemia, preoccupa maggiormente, ben più della mancanza di frullati al McDonald’s o di materassi dell’Ikea. I trasportatori di sostanze chimiche pericolose necessitano infatti di qualificazioni specifiche aggiuntive e un sondaggio della Chemical Business Association, l’associazione delle industrie chimiche, ha rivelato che la percentuale di membri che lamentano la carenza di trasportatori è arrivata al 93% dal 61% nel primo quarto dell’anno. “Molti fattori si sono uniti e hanno creato una tempesta perfetta. Alcune carenze di personale esistevano anche prima che fossimo colpiti dal Covid ma ora molti lavoratori stranieri hanno lasciato il Regno Unito durante la pandemia e le nuove regole sull’immigrazione rendono più complesso sostituirli – dice a ilfattoquotidiano.it Matthew Fell, Chief Policy Director della CBI (Confederation of British Industry), la Confindustria britannica – Oltretutto molti lavoratori sono ancora in cassa integrazione fino alla fine del mese”.
In allerta è il settore medico-sanitario, dopo che lo scorso febbraio alcuni media britannici hanno riportato il caso di una ditta farmaceutica gallese costretta a distruggere centinaia di confezioni di un farmaco contro il cancro, destinate a pazienti dell’Unione Europea, che avevano superato la data di scadenza a causa dei ritardi alle frontiera e dalle lungaggini burocratiche che ora la Brexit prescrive alle esportazioni. Di fatto i medici degli ambulatori britannici si trovano a corto di provette e hanno dovuto cancellare i prelievi del sangue fino a metà settembre quando, secondo NHS England (l’Agenzia sanitaria britannica), il problema dell’approvvigionamento dovrebbe migliorare, anche se le forniture ‘resteranno basse ancora per molto tempo’. La carenza di camionisti, che dirada il traffico commerciale tra i due lati della Manica, starebbe anche ritardando di due settimane la partenza del programma di vaccinazione contro l’influenza, che quest’inverno, senza lockdown e precauzioni anti coronavirus, potrebbe tornare a diffondersi aggressivamente tra gli inglesi. “La fine del periodo di transizione e i nuovi regolamenti commerciali hanno costretto le nostre aziende ad un significativo cambiamento del modo di operare che stavano mettendo a punto da anni – ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Richard Torbett, presidente dell’Association of the British Pharmaceutical Industry – Mettendo la Brexit in coppia con la pandemia, le compagnie farmaceutiche hanno dovuto concentrare i loro sforzi nello sviluppo di piani per gestire confini e nuove direttive doganali“.
“Non c’è dubbio che Brexit abbia aggiunto un livello di difficoltà nell’importazione di materiali essenziali in campo sanitario, come ad esempio strumentazioni medico chirurgiche e apparecchi radiologici, che sono soggetti a dazi alla frontiera e a ritardi dovuti al ridotto afflusso bilaterale al confine” ha sottolineato a ilfattoquotidiano.it Giuseppe Kito Fusai, presidente della Italian Medical Society of Great Britain, che ha voluto condividere un suo rammarico: “La mia preoccupazione principale è la mancanza di personale medico infermieristico, che si è prosciugato. Ormai sono pochissimi i medici italiani che decidono di venire a lavorare in Inghilterra – ha detto – Il Regno Unito è sempre stata una meta ambita per molti medici italiani, ma oggi questo è cambiato. In generale la situazione negli ospedali è stata critica negli ultimi 18 mesi, il personale medico è stato reclutato per funzioni fuori dalla loro comfort zone, trasferiti in terapia intensiva per supplire alla carenza di personale intensivista“. Molti non hanno resistito alla pressione e alle difficili condizioni di lavoro, e cosi, ha rivelato Fusai, “molti medici e infermieri sono emigrati o hanno abbandonato la professione, l’NHS è in difficoltà. Ancora di più ora sarebbe rilevante la presenza di medici della Comunità Europea che oggi fanno molta più fatica ad essere reclutati. Nella mia unità di chirurgia del fegato-pancreas e trapianto di organi al Royal Free Hospital di Londra avevamo dai 4 ai 5 medici italiani, oggi non ho più nessuno e sono pochissimi i medici e gli infermieri che arrivano dalla Ue”.