Dopo circa dieci ore di proteste furono liberati i nove ostaggi – quattro agenti della polizia penitenziaria e cinque operatori sanitari – e i detenuti erano rientrati nelle sezioni. Gli indagati sono 33
“In quel momento più che a proteste poste in essere con toni esagitati ho avuto la netta percezione che ci trovavamo di fronte a un tentativo di evasione“. Così gli agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di Melfi hanno descritto gli eventi di marzo 2020 per i quali la Direzione distrettuale antimafia di Potenza ha ottenuto l’arresto di 11 persone che presero parte alla ribellione, durante la quale per nove ore furono sequestrati oltre ai poliziotti anche il personale medico e infermieristico dell’istituto penitenziario. Sono invece 44 complessivamente le persone indagate che devono difendersi dalle accuse di sequestro di persona e devastazione. È stato il tribunale del Riesame di Potenza ad accogliere le richieste dall’accusa guidata dal procuratore Francesco Curcio: il gip di Potenza, infatti, aveva inizialmente rigettato le richieste sostenendo che nonostante i chiari indizi di colpevolezza, non c’erano esigenze cautelari per disporre le misure. L’accusa, tuttavia, ha presentato appello e i giudici del Riesame hanno ritenuto fondata la richiesta. Sono 11 i detenuti destinatari di una nuova misura in carcere, che diverrà tuttavia esecutiva solo in caso di conferma della Corte di Cassazione. I fatti, come detto, risalgono al pomeriggio del 9 marzo 2020 quando erano appena entrate in vigore, anche nelle carceri, le norme anti Covid. Le restrizioni scatenarono la rabbia dei detenuti che al termine dell’ora d’aria riuscirono a impossessarsi delle chiavi di una delle sezioni dell’istituto bloccando i poliziotti di guardia. La protesta si allargò velocemente alle altre sezioni del carcere e in breve tempo i carcerati riuscirono a prendere il controllo della struttura. Dopo aver devastato una serie di aree e di suppellettili per impedire ai poliziotti di riprendere il controllo del carcere.
Scrivanie, sedie, letti furono utilizzati per bloccare ingressi e accessi mentre alcuni detenuti brandivano bastoni in legno e anche sbarre di ferro ricavate dalla rottura dei cancelli che separavano le diverse ali della struttura. Oltre agli agenti della Penitenziaria, nel carcere di Melfi arrivarono anche i poliziotti della Questura lucana: oltre 150 agenti furono schierati dinanzi al cancello principale per evitare un’evasione di massa. Perché al di là delle richieste fatte dai rivoltosi per migliorare le condizioni di vita, per le forze dell’ordine, era la fuga il vero obiettivo. “Libertà, libertà!” urlavano infatti i detenuti e per i giudici del Riesame quelle grida sono “inequivocabile indizio del fatto che le restrizioni legate al Covid19 abbia costituito un pretesto, o quanto meno uno stimolo, per concretizzare un tentativo di evasione dal carcere”. A questo inoltre, per i magistrati è necessario tener conto della “significativa caratura criminale degli indagati” tra i quali anche alcuni elementi di spicco della criminalità foggiana. Come Francesco Tizzano, esponente di rilievo della batteria Moretti-Pellegrino, condannato a novembre 2020 a 18 anni di carcere al termine del processo di primo grado “Decima Azione” perché ritenuto dal tribunale l’esattore dei clan. Nonostante sia trascorso oltre un anno da quella protesta, conclusa intorno alla mezzanotte con il rientro nelle celle dei detenuti, per i giudici del tribunale quell’episodio non può essere ritenuto una parentesi: “La violenza e l’aggressività dimostrata – scrive il tribunale del Riesame – ben potrebbero essere nuovamente espresse, anche in relazione a provvedimenti genericamente sfavorevoli alla condizione dei detenuti e afferenti diversi ambiti, quali ad esempio quello della generale gestione e della disciplina”. Quella ribellione, insomma, potrebbe nuovamente prendere forma per altre ragioni.
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