La lezione viene ripetuta ormai da un paio di decenni. Il calcio come prodotto televisivo ha un bisogno disperato di retorica. Per tenere lo spettatore appiccicato allo schermo è necessario insistere sull’epica dell’impresa, sull’enfasi del gol impossibile, sulla sovrumanità della giocata. Un racconto col il caps-lock perennemente inserito che trasforma in oro anche i metalli meno nobili, che tramuta l’ordinario in straordinario. Sempre. Almeno fino a questa sera. Perché i bluff possono funzionare solo se sono credibili. E la terza competizione continentale, partita martedì scorso ma pronta a entrare nel vivo solo oggi, è ancora un enigma piuttosto difficile da risolvere. L’Europa Conference League è stata tratteggiata un paio di anni fa. Eppure ha assunto un significato peculiare nei mesi scorsi. E solo per luce riflessa. Perché la sua natura è la negazione esatta del concetto di Superlega. Niente concentrazione, niente elitarismo, niente esclusivismo. La parola d’ordine è allargamento, il termine da ripetere col sorriso sulle labbra è inclusione. Fino all’inverosimile.

Se il piano degli scissionisti era creare una coppa basata su un’estremizzazione della meritocrazia (più passata che presente, a dire il vero), la Uefa ha deciso di puntare sulla “mediocrazia”. Basta un rapido sguardo alle partecipanti per rendersene conto. Delle 32 squadre che hanno avuto accesso alla fase a gironi della nuova coppa, 16 non rientrano neanche fra i primi 100 club del ranking europeo. E soltanto in 9 riescono a piazzarsi nei primi 80 posti. Al resto ci hanno pensato i sorteggi. Il Gruppo G è diventato immediatamente una fotografia piuttosto fedele della competizione. A contendersi un posto agli ottavi ci sono il Copenhagen, quarto nello scorso campionato danese e 49° nel ranking continentale, il Paok Salonicco, secondo nell’ultima Super League greca e numero 104 in Europa, lo Slovan Bratislava, campione in carica di Slovacchia che galleggia al 143° posto nel ranking e i gibilterrini del Lincoln Red Imps FC, addirittura 227simi. Impossibile parlare di gare da cuore in gola, difficile raccontare di gol “pazzeschi”. Anche perché la Conference League riproduce in piccolo tutti quegli squilibri che rendevano la Champions un torneo a uso e consumo dei club più ricchi.

La differenza fra la rosa più preziosa (quella del Tottenham) e quella meno pregiata (sempre il Lincoln Red Imps, con appena 0.9 milioni di valore complessivo) è di 697 milioni di euro. Un’enormità. Anche se il problema è piuttosto diffuso. Il valore di 9 club non supera quota 13 milioni, ossia il livello della Juventus Under 23. Che però gioca in Serie C. Altre 4 sono paragonabili alla Reggina, undicesima nella scorsa B. Solleticare la curiosità dei tifosi è più un’utopia che una possibilità. Anche per i più fanatici. Il cartellone d’altra parte regala pochi brividi. Fra i match in programma oggi c’è anche Kairat AlmatyOmonia Nicosia. I campioni del Kazakistan (che hanno riempito qualche riga di giornale con l’ingaggio del trentottenne Vagner Love) contro i campioni di Cipro. Il numero 190 del tabellone continentale contro il numero 224. Forse la partita di coppa con il ranking più basso di sempre. Almeno per un paio d’ore. Perché alle 18.45 si gioca Vitesse (154°) contro Mura (323°). Squadre che mai avrebbero trovato asilo in un’altra competizione continentale che ora si ritrovano a seminare indifferenza. Colpa soprattutto del peccato originale con cui è venuta alla luce l’Europa Conference League. La dilatazione della Champions League ha svilito l’Europa League e ha reso ridondante la Coppa delle Coppe. Meglio rinunciarci, anche se con il passere degli anni quel trofeo sarebbe rimasto l’unico con una identità ben precisa.

Per reintrodurre una nuova competizione serviva un’idea forte. Solo che i sogni rivoluzionari si sono dissolti in accordi democristiani. Prima ancora di nascere la Conference League è diventata un ufficio di collocamento, un contenitore vuoto dentro cui incastrare club esclusi da tutto, un’entità sinistramente vicina al premio di consolazione della tombola natalizia. Todos caballeros, più nella cattiva che nella buona sorte. Uno accanto all’altro hanno preso posto settimi classificati dei grandi tornei e campioni nazionali eliminati prima dai playoff della Champions e poi da quella dell’Europa League. Beati gli ultimi che saranno primi. Almeno fra gli esclusi seriali. La scelta di giocare di giovedì sera ha ridotto all’osso le possibilità di creare un seguito intorno alla competizione. La Conference come bene succedaneo all’Europa League. Anzi, nemmeno questo. Perché a deprezzare definitivamente il torneo ci pensa il meccanismo che porta alla finale. Le terze classificate nei gironi di EL possono giocare il jolly della retrocessione e affrontare le seconde dei raggruppamenti di Conference. Chi vince passa agli ottavi della coppa meno abbiente. Una sofferenza infinita, un’impresa che può essere compiuta solo al ribasso. Anche il premio per i vincitori della coppa genera apatia. Chi si aggiudica la Champions porta a casa più di cento milioni di euro. Chi alza al cielo l’Europa League una trentina. Per la Conference si superano di poco i 10.

Cifre che non permettono il salto di qualità, che consentono al massimo di eternare il proprio dominio nei campionati più periferici. Da anni calciatori e allenatori chiedono di giocare meno partite. I primi perché hanno paura che le proprie carriere possano accorciarsi. Gli altri per avere la possibilità di trasmettere davvero qualcosa alla squadra. La Uefa ha ascoltato, ha annuito e ha risposto: più competizioni, più match. Anche se a forza di diluire, a furia di aumentare il volume si finisce con l’annacquare la qualità e di conseguenza l’interesse del consumatore. Un’idea che al momento non sembra preoccupare i padroni del vapore. D’altra parte la Conference League è un’invenzione molto più politica che sportiva. “Il nuovo torneo rende le competizioni Uefa più inclusive che mai – ha spiegato Ceferin – Ci saranno più partite per più squadre, con più federazioni rappresentate nella fase a gironi”. Ed è proprio questo il problema. L’avvocato sloveno è stato di parola. “Sono certo che costruire ponti è fantastico, ma costruirli per tutti è meglio”, aveva detto al momento della sua prima elezione, cinque anni fa. La sua candidatura era stata appoggiata da 42 federazioni su 55 (contro di lui si erano espresse, fra le altre, Inghilterra, Belgio, Olanda, Galles e Scozia), ottenendo una spinta decisiva dai paesi più piccoli. Oltre che dall’Italia. “Noi siamo stati i suoi primi sostenitori – aveva affermato Tavecchio – insieme a lui vogliamo costruire una nuova Uefa, più partecipata e meno verticistica”. Detto, fatto. Alla nuova competizione in stile Frankenstein parteciperanno fra i 9 e i 12 club che hanno vinto il titolo nazionale. E che prima avrebbero faticato a trovare spazio in una coppa continentale. Solo che stavolta raccontare le loro imprese, alzare i decibel per i loro gol, urlare per la magia di una loro giocata sarà più complicato. Ma forse questo è un dettaglio che interessa a pochi.

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