Questa è un’epoca storica che ha del surreale. Non solo è flagellata da una pandemia che finora ha causato più di 4 milioni e mezzo di morti, ma esiste pure uno svariato numero di persone che considera “dittatura sanitaria” la raccomandazione di indossare una mascherina per evitare il contagio e che sostiene che il vaccino è un mezzo subdolo dei poteri forti (?) per inserire un microchip sottopelle, attraverso il quale ci manovreranno come robot. Una roba che a confronto Black Mirror è una telenovela sudamericana.

Al contrario degli altri che vivono da schiavi, soggiogati da una pericolosa casta di sadici virologi e di medici senza scrupoli, loro sono quelli che hanno capito davvero come va il mondo, sono stati illuminati da rivelazioni fondamentali per la sopravvivenza su questo pianeta. Rivelazioni che hanno ovviamente letto o ascoltato in qualche video su Facebook. Sì, perché occorre precisare che per molti di loro, la vita si svolge quasi interamente sui social network. È lì che trovano ispirazione per indignarsi o per eccitarsi, è lì che finalmente hanno l’impressione che il loro parere conti qualcosa, è lì che esistono davvero. Digito, ergo sum.

A dire il vero, durante questa pandemia, l’uso compulsivo e disfunzionale dei social ha raggiunto livelli apocalittici non solo tra i complottisti più accaniti. Persone che faticano persino a esprimersi in italiano corretto e che alla voce “istruzione” scrivono “Università della vita”, sui social diventano improvvisamente luminari in qualcosa, a seconda dell’argomento di tendenza: virologia e microbiologia, giurisprudenza, economia politica, critica cinematografica, per non parlare di tutti i potenziali allenatori di calcio che pullulano incompresi in rete.

Tutti hanno pareri su tutto e quel che è peggio è che li esprimono senza nessun tipo di remora, spesso anche in maniera molto aggressiva. Sui social si vive una nuova realtà, di solito molto distante da quella reale e molto spesso si finisce per esistere esclusivamente attraverso il proprio profilo, attraverso il quale ci si sente liberi di amare morbosamente oppure odiare fino ad augurare la morte a qualcuno. Seppur nati con il nobile intento di favorire la socialità, i social network hanno in realtà contribuito a creare una dimensione parallela nella quale le persone smettono di avere un’identità e diventano semplicemente profili, mentre le emozioni sono definite da cuoricini, faccine tristi o arrabbiate.

La socialità nei social è paradossalmente assente. Si parla addirittura di solitudine di massa, un fenomeno a dir poco inquietante che si sta diffondendo un po’ in tutto il mondo e che trova la sua origine proprio nella digitalizzazione. In Italia, nell’ultimo anno, su 50 milioni di persone on line, 35 milioni sono attive sui social. C’è un applicazione per ogni cosa: fare acquisti on line, cibo a domicilio, fare la spesa, rimorchiare. Il risultato è che, complice anche la pandemia e l’ormai famigerato distanziamento sociale, i rapporti umani stanno attraversando una fase di crisi davvero preoccupante. Iper connessi col mondo intero, ma completamente disconnessi dalla propria realtà.

La nuova identità è basata esclusivamente sui like e sui follower, cartine tornasole del proprio successo o del proprio fallimento, che naturalmente si ripercuote sulla vita di tutti i giorni. Perciò si arriva a pianificare tutta una serie di azioni quotidiane in base a un potenziale riscontro sui social. Ci si veste, si va in vacanza, si mangia in determinati ristoranti, si sceglie di guardare determinati film e serie tv, nei casi più estremi si fanno figli con l’unico scopo di poter postare sui social la foto del secolo, quella che avrà più like e più interazioni in assoluto.

Tra le priorità non c’è più quella di essere felici, ma di sembrare felici, specialmente quando non lo si è affatto. Perciò, la frustrazione covata quotidianamente viene riversata sui social attraverso la propria bacheca o peggio, commentando su quelle altrui. Non esiste la critica costruttiva, ma solo bieca smania di insultare e denigrare chi viene percepito come una minaccia per quella finta felicità instagrammabile così faticosamente costruita. I social network sono la nuova finestra sul mondo e tutto ciò che passa attraverso le bacheche più popolari diventa verità assoluta.

Non c’è ricerca, approfondimento, non c’è tempo che meriti di essere speso per leggere l’intero l’articolo di un quotidiano on line, è più che sufficiente fermarsi al titolo: ciò che conta è trovare conferma delle proprie convinzioni e dei propri pregiudizi. In questa nuova percezione distorta della realtà, essere social equivale a essere fighi, a “stare sul pezzo”, perciò è importante seguire i trending topic del momento, non dimenticando mai di postare accorati Rip commemorativi per le morti celebri, anche se non si sa assolutamente nulla del defunto in questione. Nella beata illusione di essere unici e diversi da tutti, si nasconde in realtà un disperato bisogno di essere come gli altri, perché nell’omologazione ci si sente più sicuri e soprattutto meno soli.

In questa preoccupante tendenza al conformismo, chi funge da traino ed è in grado di condizionare le scelte della massa, ha un posto in paradiso. La figura dell’influencer rappresenta al giorno d’oggi la nuova frontiera occupazionale per giovani e non, la massima aspirazione di realizzazione personale, ma soprattutto è diventata il cavallo vincente sul quale i più grossi brand del mondo decidono di puntare tutto. Data la portata immane di traffico sui social, per la pubblicità diventa essenziale appoggiarsi a chi riesce a catalizzare su di sé l’attenzione di milioni di persone, influenzandone le preferenze.

Ecco che sui red carpet di tutti gli eventi più importanti del mondo, gli influencer sfilano accanto a nomi del calibro di Brad Pitt o Penelope Cruz, confermandosi così come le nuove star del millennio. Ma anche nel mondo degli influencer vale il principio per cui uno su mille ce la fa, il resto viene inghiottito dal gorgo profondo dei social network, nel quale un profilo vale l’altro e nessuno vale davvero. Così, in questa spasmodica ricerca di approvazione social, si crea quasi una sorta di dipendenza da like, che in molti casi genera solo ulteriore frustrazione e depressione.

Lo scenario è sconfortante e, a voler scomodare le teorie dei sopracitati complottisti, si ha quasi l’impressione di vivere davvero in una dittatura: la dittatura dei social network.

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