Mario Staderini è il politico che nel 2019 ha fatto condannare l'Italia dall'Onu per le "irragionevoli restrizioni" nella possibilità di promuovere un referendum popolare. "Con le firme online i referendum tornano in mano ai cittadini, che possono intervenire sull'agenda politica e attivarsi per cancellare leggi ingiuste. Prima questa facoltà era riservata ai grandi partiti". Le consultazioni diventeranno troppe? "Non tutti i temi scaldano i cuori, non tutti i promotori sono credibili. Ad esempio, la raccolta firme per abolire il Reddito di cittadinanza non l'ho ancora vista"
“Perché la firma digitale è una rivoluzione? Perché abbatte lo strapotere del palazzo. Ora gli elettori potranno imporre alla politica i temi più scomodi, e i parlamentari non si sentiranno più al sicuro ad approvare le leggi peggiori“. La riassume così Mario Staderini, il politico che ha aperto la strada alla rivoluzione della democrazia diretta in Italia: la possibilità – introdotta per la prima volta al mondo nel nostro Paese – di sottoscrivere online le richieste di referendum tramite Spid o carta d’identità elettronica. Una conquista raggiunta a luglio con l’emendamento al Dl Semplificazioni proposto da Riccardo Magi (+Europa) che ha dato il via a una valanga di adesioni ai due quesiti su eutanasia e cannabis legale (con quest’ultimo che ha raggiunto la soglia di 500mila firme in appena sette giorni). E già attira pareri critici secondo cui, in questo modo, raccogliere le adesioni necessarie diventerà persino “troppo facile“, col rischio di svilire l’istituto referendario. “Ma è il contrario: era troppo difficile prima“, spiega Staderini, avvocato ed ex segretario dei Radicali italiani che nel 2019 ha ottenuto la condanna dell’Italia da parte del Comitato diritti umani dell’Onu proprio per le “irragionevoli restrizioni” a cui la nostra legge subordinava la possibilità di promuovere referendum d’iniziativa popolare. “Un diritto costituzionale era stato reso impossibile da esercitare, perché i partiti, dei referendum, hanno sempre avuto paura”.
Quando è iniziata la vostra battaglia?
Nel 2013, con i 12 quesiti che proponemmo come Radicali italiani (su temi che andavano dal divorzio breve all’abolizione del reato di clandestinità, ndr): ne depositammo sei, che però si fermarono a 200mila firme a causa degli ostacoli di legge alla campagna. Soprattutto la difficoltà di trovare autenticatori: servivano consiglieri comunali, alti funzionari pubblici o cancellieri giudiziari (che però vanno pagati). I grandi partiti o sindacati ne hanno a disposizione un esercito, mentre soggetti più piccoli fanno fatica. E bisogna raccogliere 500mila firme in tre mesi. Il risultato è che negli ultimi dieci anni – dai referendum su acqua pubblica e nucleare del 2011 – tutte le grandi consultazioni sono state richieste dai parlamentari o da cinque Consigli regionali, mai dai cittadini. Abbiamo concluso che bisognava fare qualcosa.
Da qui il ricorso all’Onu.
Lo abbiamo presentato nel 2015 insieme a Michele De Lucia, sostenendo violazione del Patto internazionale dei diritti civili e politici, che impone agli Stati firmatari di garantire la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ad assisterci è stato Cesare Romano, professore di diritto internazionale alla Loyola University di Los Angeles. Nel frattempo però abbiamo messo in piedi altre iniziative: una petizione online, un appello al capo dello Stato perché intervenisse sul Parlamento, una protesta che ci ha visto per quaranta sabati in piedi di fronte al Quirinale e ai palazzi delle istituzioni. Poi, a dicembre 2019, il Comitato ha condannato l’Italia: la sentenza creava un obbligo di diritto internazionale a rimuovere gli ostacoli entro 180 giorni, termine ovviamente non rispettato. Ma noi abbiamo continuato a fare pressione e nella legge di Bilancio 2020 siamo riusciti a far approvare l’emendamento Versace, che introduceva la firma digitale a partire dal 2022. Poi, lo scorso giugno, Marco Gentili (co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, ndr) ha trovato un accordo con il ministro Vittorio Colao per anticipare i tempi: da qui l’emendamento Magi.
Che è stato votato all’unanimità, ma con parere negativo del Governo.
In realtà, come ho appena detto, il ministro Colao era d’accordo, così come la ministra dell’Interno. A opporsi è stato il dicastero della Giustzia di Marta Cartabia, forse per un riflesso burocratico dell’organo responsabile del controllo delle firme – l’Ufficio centrale per i referendum – o forse per paura di questa rivoluzione proprio durante la campagna per il referendum sull’eutanasia. In Parlamento, però, hanno votato tutti a favore, mentre nel 2017 un emendamento simile era stato bocciato: da un lato c’è stata la condanna Onu, dall’altro una cultura digitale che nel frattempo si è evoluta. Se si obbligano gli italiani a usare lo Spid per interagire con la pubblica amministrazione, per la sanità e il cashback, sarebbe stato il colmo negarlo per raccogliere le firme per i referendum.
La firma digitale esiste da poche settimane e ha già terremotato il quadro politico. Ve lo aspettavate?
Il successo straordinario è la prova che davvero i referendum popolari erano ostacolati da quelle “irragionevoli restrizioni” di cui parla l’Onu nella sentenza di condanna. Ora non c’è nessun diritto “nuovo”: si rispetta la Costituzione, e questo appare rivoluzionario. I referendum tornano uno strumento in mano ai cittadini, che possono imporre temi scomodi all’agenda politica (come nei casi dell’eutanasia o la cannabis) o attivarsi facilmente per cancellare leggi ingiuste. Prima questa facoltà era negata al popolo e riservata ai grandi partiti, con i propri parlamentari e consiglieri regionali. Che adesso hanno paura: sanno che non si dovrà più passare da loro per avere gli autenticatori a disposizione, e che nemmeno i media mainstream saranno più essenziali, basta usare i social media.
C’è chi dice che così i referendum saranno troppi, che si chiederanno in modo disinformato, con costi troppo alti e il rischio di uno squilibrio tra popolo e Parlamento.
Lo squilibrio è quello che c’era prima, con il Parlamento che si sentiva libero di votare le leggi peggiori, protetto dalla sicurezza che il referendum era “roba loro”, dei partiti. Adesso sarà più difficile. I costi: il problema non sono certo quelli per far funzionare la democrazia. Al massimo, se proprio si vuole, si può fare come in Svizzera, dove si vota in due sessioni l’anno per tanti quesiti insieme. O accorpare i referendum alle elezioni. I referendum non saranno “troppi” perché non tutti i temi sono sentiti come eutanasia e cannabis, non tutti i promotori sono credibili, quindi le firme non arriveranno sempre in massa: insomma, ci sarà una selezione naturale. Per esempio, è da mesi che sento parlare del famoso referendum sul Reddito di cittadinanza proposto da Renzi, ma non mi risulta che la raccolta firme sia partita. Meno che mai quella digitale.
Voi radicali non finirete per avere nostalgia dei cari vecchi banchetti?
Si faranno lo stesso, anzi se ne faranno di più, perché non servirà dare la caccia agli autenticatori ma basterà portarsi dietro un tablet. Anzi: con la firma digitale ogni luogo potrà trasformarsi in un banchetto. Anche una cena con gli amici o una chiacchierata al bar.