Nei primi sei mesi di quest’anno 809mila persone si sono licenziate. Sono quasi 200mila in più rispetto allo stesso periodo del 2020. In particolare nel trimestre aprile-giugno 470mila lavoratori hanno deciso di lasciare il posto, 214mila in più dell’anno prima. 285mila di loro avevano un contratto a tempo indeterminato. Sono aumentati anche i licenziamenti per motivi disciplinari (esclusi dal blocco in vigore fino allo scorso giugno), una tendenza iniziata nel terzo trimestre del 2020. Nella prima metà del 2021 i licenziamenti disciplinari sono saliti a 67mila, 20mila in più dell’anno prima. Il balzo colpisce, le cessazioni per ragioni disciplinari sono cresciute del 67% nel secondo trimestre dell’anno rispetto all’analogo trimestre 2020, le dimissioni del 91%. Leggendo gli ultimi dati dell’Osservatorio Inps sorge il dubbio che almeno una parte di questi incrementi possa nascondere tentativi di aggirare lo stop ai licenziamenti in vigore per attenuare le conseguenze dell’emergenza sanitaria sul mercato del lavoro. Il blocco, utile ricordarlo, è stato affiancato da una cassa integrazione totalmente gratuita per le aziende.

Non bisogna però affrettare conclusioni. La risalita del numero di dimissioni, che rivede valori precedenti alla pandemia, può essere anche la conseguenza di una ripresa del mercato del lavoro: mi licenzio perché ho trovato un altro impiego. Anche se, spiega a ilFattoquotidiano.it Vincenzo Martino, avvocato del lavoro e membro dell’associazione giuslavoristi italiani, “molte di queste cessazioni sono probabilmente debitamente incentivate”. Un accompagnamento alla porta consensuale, o quasi. “Ho visto molti licenziamenti forzati in questi mesi”, continua Martino che aggiunge, “non posso trarre conclusioni generali dalla mia esperienza specifica ma la l’impressione è che il ricorso alla risoluzione per ragioni disciplinare sia stato perseguito più che in passato”. A volte però, fa notare Martino, anche da parte degli stessi lavoratori o come frutto di un accordo tra le due parti. A differenza delle semplici dimissioni il licenziamento disciplinare dà infatti diritto all’assegno di disoccupazione (Naspi) per un periodo fino a massimo due anni.

La Filcams è la federazione della Cgil che segue, tra gli altri, i settori del commercio, del turismo, della ristorazione, delle pulizie. Insomma la prima linea nella battaglia occupazionale contro la pandemia. Qui il blocco dei licenziamenti durerà fino alla fine del prossimo ottobre, sebbene i sindacati auspichino una proroga che traghetti i lavoratori fino alla approvazione della riforma complessiva degli ammortizzatori sociali. “Sicuramente parte dell’incremento dei licenziamenti disciplinari fotografato dall’Inps si spiega con il tentativo di aggirare il blocco“, spiega Emanuele Ferretti dell’Ufficio giuridico e mercato del lavoro della Filcams Cgil. È un tipo di licenziamento che regole precise ma che può essere artefatto. Uno dei modi tipici è quello di lasciare a casa un dipendente, non sollecitarne il rientro, e poi licenziarlo per le troppe assenze. Naturalmente questo è illegittimo e passibile di reintegro, se deciso dal giudice del lavoro. Ma finire in tribunale è eventualità sempre più rara, anche perché nel corso degli anni il ricorso al giudice è stato reso economicamente più rischioso per il lavoratore che, al pari dell’azienda, è tenuto a pagare le spese processuali se perde. Soprattutto nelle aziende più piccole, il 98% di quelle italiane, dove i rapporti si strutturano anche su un piano personale, l’esito finale è quello di un accordo extra giudiziale che chiude la vertenza.

Quello per ragioni disciplinari è un licenziamento che prevede fattispecie definite ma che offre un qualche margine di forzatura. Specialmente quando si fa riferimento alla “rottura del rapporto di fiducia” le zone grigie esistono. Per di più, una volta avviato, è una procedura veloce. Il dipendente ha 5 giorni per giustificarsi di fronte alle contestazioni. Se non lo fa, o se la replica viene ritenuta inadeguata dal datore di lavoro, si passa al licenziamento. Dopo di che per tornare al proprio posto rimane solo la strada del tribunale. I motivi per cui si può arrivare al licenziamento disciplinare sono definiti anche nei contratti collettivi. Entro certi limiti possono quindi variare da settore a settore. In alcuni casi servono ad esempio quattro giorni di assenza ingiustificata. Ma in alcuni settori, se le assenze si verificano il lunedì, non è necessaria la consecutività. “Sono regole che affondano le loro radici ancora nei contratti corporativi dell’epoca fascista e che si basano sull’ipotesi che nel fine settimana il lavoratore si ubriachi e non sia poi in grado di presentarsi al lavoro”, spiega l’avvocato Martino.

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