di Carlo Schettino
Leggendo della transizione economica da lineare a circolare, non mancano mai slogan strumentali dei detrattori, per incutere timori aggiuntivi. Cerco di fornire un contributo per aiutare quelli come me, “cittadini normali”, a comprendere la realtà esistente e quella in arrivo.
“Il passaggio alle Green economy porterà un’inevitabile decrescita dell’economia”. Quest’affermazione per me è falsa. Nella storia dell’umanità non è mai successo. Il passaggio da una economia agricola a industriale era malvista, ci si preoccupava degli alimenti da produrre se i contadini si fossero trasferiti in città a lavorare in fabbrica, ma comunque è successo. La tecnologia ha prodotto macchine capaci di sostituire il lavoro. La tecnologia si studiava nelle scuole, si applicava e implementava nelle fabbriche e poi si rivendeva alle imprese e ai consumatori.
Molte imprese potranno evolvere, o sostituire quelle esistenti con maggiore tasso di innovazione tecnologica e professionalità più elevate orientandosi verso nuovi settori e strumentazioni, o convertire i loro sistemi, aggiornando le competenze interne o dismettendone l’attività. Il risultato è un aumento delle competenze richieste, delle figure professionali e del numero di occupati partendo dalla riconversione di quelli esistenti. Sta già avvenendo, nella produzione di energia, nell’agricoltura sostenibile, nelle digital farm, e nelle Università, dove ogni giorno appaiono nuovi corsi di formazione. Il progresso soprattutto “disruptive” elimina le aziende, i processi e le figure non efficienti, pensiamo al pc.
“Saranno i più poveri e i cittadini a pagare la Green economy”. Questo è un pericolo incombente poiché abbisogna di un indirizzo politico. L’economia circolare e i principi di sostenibilità (Esg – Environmental, social, and corporate governance – fino al Green deal) non parlano solo di produzione. Si parla anche di eliminare le diseguaglianze e di riequilibrare la distribuzione del Capitale naturale e del Patrimonio. Senza pregiudizio, la Green economy non ha bisogno dell’accumulazione di Capitale e di Patrimoni. L’economia classica condanna la rendita fin dagli albori. Il profitto, nell’economia lineare, è la leva che muove l’imprenditore o l’investitore a finanziare un’intrapresa economica.
Il principio fondante della Green economy è che tutto quello che si usa deve essere re-immesso in natura. Non si vuole quindi “limitare” la quantità di consumo, ma solo la modalità. Il paletto è che ciò che si produce, e si consuma, possa rigenerarsi totalmente. In natura non si creano patrimoni, né si accumulano energie e ricchezze che non siano immediatamente spendibili o utilizzabili a vantaggio di qualcuno e per sua necessità. In un contesto di economia circolare (che può essere molto più ricco di uno lineare perché più diffuso e inclusivo) l’accumulazione non serve. Il che non significa necessariamente eliminare il profitto (se sostenibile), soprattutto se reimpiegato, ma solo che la ricchezza prodotta è relativa al consumo necessario o desiderato, sulla base della sostenibilità, cioè il tempo necessario per rigenerarsi.
Ne consegue che se il produttore non riesce a imprimere alla sua crescita un tasso di riproduzione superiore all’utilizzo della risorsa stessa, dovrà (ad esempio) o pagare una tassa molto elevata per mitigare gli effetti negativi di questa scelta o rinunciarvi poiché illegale. L’opportunità di tassare tutti i beni e i patrimoni di accumulo e non riutilizzati che generano inefficienze sistemiche e non riguardano l’intera umanità ma solo una minima minoranza (1%). I proventi di queste imposte, però, servirebbero a riconvertire le produzioni non sostenibili, a formare le risorse (o aggiornarle), a finanziare gli interventi di riqualificazione e di innovazione o i percettori di reddito inferiore a vantaggio delle moltitudini. Si tratta di redistribuzione, ovviamente, ma finalizzata al sostentamento di nuove modalità produttive e organizzative della società a vantaggio di tutti e non solo di alcuni.