Quando pensiamo al Medioevo pensiamo a un periodo oscuro, di regresso e immobilismo. Ma cercare di semplificare la lettura attraverso prospettive esclusivamente filtrate dall’occhio occidentale non può aiutare a comprenderne né le radici storiche profonde, né il ruolo dei tanti attori in gioco
Quando pensiamo al Medioevo pensiamo a un periodo oscuro, di regresso e immobilismo. Nel senso comune esiste l’idea di un salto dalle glorie imperiali romane, sinonimo di ricchezza e prosperità, alla calamità delle invasioni barbariche, sinonimo di razzie e devastazione. Va da sé che la prospettiva storica confuta immediatamente entrambi questi giudizi assoluti: ci parla, invece, di transizioni continue, cambiamenti lenti, influenze reciproche. Il Medioevo, poi, è un periodo incredibilmente lungo: anche quello convenzionale, che inizia nel 476 con la deposizione di Romolo Augusto e la caduta dell’impero romano d’Occidente, e che finisce nel 1492 con la scoperta dell’America, resta comunque un periodo di mille anni, in cui sono vissute più generazioni di nostri antenati di quelle che sono vissute dalla fine del Medioevo a oggi. Ci furono anche importanti cesure, ma soprattutto era un mondo che mutava in continuazione: tra la società delle invasioni barbariche, quella di Carlo Magno e quella di Dante non c’era niente in comune. Ciò che noi leggiamo come modernità non ci è piombato addosso in rottura totale rispetto al Medioevo, piuttosto è nata nel e dal Medioevo.
Nel gioco che si crea storicamente tra continuità, rotture e trasformazioni, resta però il fatto che ci furono passaggi di taglio e trasformazione significativa rispetto all’età antica, e quando iniziò a riformarsi un legame con la produzione artistica e intellettuale classica, mediato dall’enorme lavoro di rielaborazione e diffusione culturale che proveniva dal mondo arabo, nacque anche l’idea stessa di un Rinascimento, che rivendicava una certa separazione dal periodo precedente. Si è iniziata a diffondere la convinzione che la media tempestas (il termine si trova in alcune opere del XV secolo) avesse creato un’interruzione della qualità artistica e culturale del mondo classico, segnando una progressiva corruzione delle gerarchie ecclesiastiche. La dimensione cronologica appare per la prima volta nel 1688 nella Historia medii aevi di Cristoforo Cellario, che fa iniziare il periodo con le invasioni barbariche e finire con la caduta di Costantinopoli (1453), in coincidenza con l’inizio delle grandi scoperte e invenzioni con la ripresa culturale e religiosa.
Ne sono poi derivate enormi semplificazioni utili a rimarcare questo distacco, legate pure alla dimensione affascinante delle leggende nere, che però hanno ben poco di storico: epoca della superstizione dove tutti credevano a superstizioni, magie e fatture (e pazienza se gli antichi romani ci credevano almeno altrettanto); epoca di persecuzione delle streghe (e pazienza se ai tempi di Michelangelo accuse di stregoneria e roghi erano ben più diffuse); epoca dello ius primae noctis e della castità (e pazienza e in realtà fu epoca in cui si parlava di sesso in estrema libertà, come qualcosa che fa parte della vita, dei bisogni naturali, come qualcosa che interessa allo stesso modo donne uomini, a differenza di quanto sarebbe emerso in fasi successive, come nell’Ottocento vittoriano, quando si tendeva a pensare che le donne non dovessero essere interessate a queste cose).
Ecco il nodo che lega memoria storica, narrazione e prospettive. Ultimamente è molto frequente l’accostamento tra il medioevo e i Talebani, che hanno riconquistato l’Afghanistan dopo vent’anni: e qui la deformazione storica investe molti fronti. Anzitutto si è detto che la narrazione di Medioevo come “luogo oscuro” è perlopiù un mito che storicamente non regge. Fu certamente un periodo complesso, costellato da crisi, ma la stessa costruzione dell’idea negativa di Medioevo così come generalmente inteso è tutta una questione occidentale. Se però facciamo l’esperimento di pensare al mondo arabo più o meno in quello stesso periodo (lunghissimo), troviamo una realtà in enorme fermento. A Baghdad già nel 500 fu costruita la Casa della sapienza, un centro di ricerca, dove molti intellettuali traducevano e rielaboravano opere classiche. Al contempo si stava sviluppando una realtà commerciale florida, tra il Tigri e l’Eufrate, lungo le tratte della via dell’incenso e inoltrandosi verso il Mediterraneo, circolavano merci ma anche saperi. Il polo culturale di Baghdad si sviluppò in maniera sorprendente, specialmente nel corso del IX secolo e anche grazie ad al-Maʾmūn, che durante il suo califfato investì fortemente nel lavoro culturale e di ricerca scientifica.
Gli arabi furono pionieri nei campi della medicina, della matematica, della musica. Introdussero strumenti utilizzati tutt’oggi come bisturi, pinze e divaricatore, introducendo la chirurgia e compiendo operazioni delicate come quella della cataratta. Idearono la numerazione con il sistema decimale e l’incognita all’interno delle operazioni matematiche. A Baghdad fu costruito il primo liuto e progressivamente si diffusero scuole dove uomini e donne studiavano musicologia insieme. Nei centri di ricerca islamici, cristiani ed ebrei cooperavano arricchendo e ampliando le possibilità di traduzione e intersezione tra le diverse tradizioni scientifiche e tra i molti materiali della letteratura cui si poteva accedere. Anche in tal caso troviamo uomini e donne che collaboravano. Aumentando le contaminazioni con altre lingue crebbero anche le possibilità di diffondere il sapere. Da queste fonti rielaborate nei contesti arabi e giunte in occidente iniziò tutto quel processo di ripresa della cultura classica che condusse alla fase rinascimentale. Baghdad fu il cuore urbano di un processo di sviluppo culturale e di crescita economica che chiaramente non toccò nel complesso e nella stessa misura tutta la penisola arabica, dove coesistevano molte comunità nomadi e viandanti, legate a contesti economici e culturali specifici e spesso differenti, ma collegate da flussi e influenze costanti, oltre che da un’identità linguistica comune. È in questo stesso “periodo medievale” che nella penisola araba è nato e si è diffuso l’Islam, diventato poi l’elemento identitario principale di quell’area geografica.
Parallelamente è emerso pure il concetto di jihad. Anche in questo caso la lettura occidentale è fuorviante e antistorica: la stessa parola araba jihad, comunemente tradotta come “guerra santa”, significa in realtà sforzo (di fare quello che è gradito a Dio). Esiste un jihad grande e uno piccolo: il primo è lo sforzo che porta a rivoluzionare la propria vita, il secondo è quello che può tradursi anche in una guerra contro i nemici esterni. Se ne parla direttamente nel Corano (sura 2, sura 22) per sottolinearne l’approccio difensivo o per rimarcarne l’approccio difensivo e non esagerato “perché Dio non ama quelli che eccedono”. L’interpretazione è chiaramente stata (ed è) centrale in una comunità religiosa che non ha un papa, un clero nel senso cristiano, sacramenti, dogmi, ma solo studiosi che hanno studiato e interpretato il Corano (Ulema) e dove, almeno in teoria, ogni credente può seguire la scuola che preferisce. Se si pensa alla storia, al susseguirsi degli eventi, alcuni passaggi ci dicono molto, specialmente rispetto allo “sforzo esterno”, alla “guerra santa”.
Il jihad in tal senso è stato un dispositivo ideologico importante nella prima fase dell’Islam, nato dalla vicenda di Maometto, ai tempi della guerra civile tra arabi nomadi del deserto e arabi stanziali e tra le diverse famiglie che si contendevano il potere alla Mecca. In questo caso i nemici erano i politeisti, mentre cristiani ed ebrei non erano contemplati come tali, perché comunque – anche se “a modo loro” – si riteneva credessero nel vero Dio e se ne tutelavano i luoghi di culto. Tra 620 e 630 quindi si parlava molto di jihad e nello spazio dell’interpretabilità del Corano si decise che la guerra, ogni tanto, andava fatta. Poi, conclusa la guerra civile, iniziò quel periodo di estensione che vide gli arabi islamici conquistare mezzo mondo e creare un impero forte e ricco: non ci si sentiva minacciati e di jihad si parlava meno, almeno fino al 1096, quando i crociati si affacciarono in Asia minore per poi conquistare Gerusalemme nel 1099. Il concetto di jihad tornò allora attuale e lo rimase a lungo, così come quello di crociata: iniziò a sedimentarsi l’idea di una inimicizia reciproca tra islamici e cristiani, che sopravvisse ben oltre le crociate vere e proprie (terminate nel 1291, quando gli islamici ripresero l’ultimo pezzettino di Medioriente rimasto in mano agli occidentali).
Il messaggio jihadista, infatti, continuò a risuonare a fasi alterne durante l’impero ottomano ma, tuttavia, iniziò a diventare davvero un tema davvero forte a partire dal 1800, in risposta alle politiche dell’espansione coloniale europea e associando l’interpretazione difensiva di Jihad a quella offensiva di crociata. Di lì in avanti è stata storia, contemporanea, del mondo orientale, ma anche coloniale e postcoloniale, di conflitti tra visioni del mondo e di guerre con diversi rapporti di forza. Fino ad arrivare agli anni Ottanta del 1900, alla nascita dei mujaheddin, cioè dei gruppi di combattenti del jihad finanziati anche dagli Stati Uniti in funzione antisovietica, e all’esperienza talebana. Certo è che, di fronte alla complessità storica di luoghi ed epoche diverse e delle interazioni tra queste realtà nel lungo periodo, cercare di semplificare la lettura dei fenomeni contemporanei attraverso prospettive esclusivamente filtrate dall’occhio occidentale ed etichette come quella di un “Medioevo oscuro”, non può aiutare a comprenderne né le radici storiche profonde, né il ruolo dei tanti attori in gioco.