La Procura generale di Palermo, al termine della requisitoria, aveva chiesto alla corte d’assise d’appello di confermare le condanne inflitte in primo grado a boss, ex carabinieri e politici imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato. La sentenza non arriverà prima della giornata di domani, ma è probabile che si arrivi anche a mercoledì. Nell'ultima giorno d'udienza uno dei giudici popolari si ritira per motivi di salute e viene sostituito
Comincia il conto alla rovescia per conoscere la sentenza d’Appello del processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. La Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino con a latere Vittorio Anania, si è appena ritirata in Camera di consiglio. La sentenza non arriverà prima della giornata di domani, ma è probabile che si arrivi anche a mercoledì. Prima di entrare in camera di consiglio, il presidente Pellino ha annunciato che uno dei giudici popolari si è ritirato per motivi di salute ed è stato sostituito.
La Procura generale di Palermo, al termine della requisitoria, aveva chiesto alla corte d’assise d’appello di confermare le condanne inflitte in primo grado a boss, ex carabinieri e politici imputati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado il boss Leoluca Bagarella fu condannato a 28 anni di carcere, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, dell’ex senatore Marcello Dell’Utri e l’ex medico fedelissimo di Totò Riina, Antonino Cinà furono condannati a 12 anni. Otto anni la pena inflitta all’ex capitano del Ros Giuseppe De Donno. La Corte, in primo grado, aveva dichiarato il “non doversi procedere” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca per intervenuta prescrizione visto il riconoscimento delle attenuanti previste per i collaboratori di giustizia. Brusca ha partecipato al processo in collegamento da una località riservata, dopo essere stato scarcerato per fine pena, tra le polemiche, la settimana scorsa, dopo 25 anni di detenzione. Anche Massimo Ciancimino era stato condannato a 8 anni per calunnia in primo grado ma poi, nel secondo grado, la sua posizione è stata stralciata perché il reato è andato prescritto.
L’ultima udienza si è chiusa con le repliche della difesa dell’ex senatore Dell’Utri, del generale Mori e del colonnello De Donno. “Perché si continua con questo accanimento contro una persona che per tutta la vita ha servito fedelmente questo ingrato paese?”, è la frase con la quale l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mori, ha concluso le sue repliche. “Alla luce dei dati e delle testimonianze, delle prove che ho citato e che dimostrano che la verità dei fatti delle vicende trattate è quella che vi ho rappresentato, comprovandola con elementi oggettivi, delle affermazioni che dimostrano anche l’erroneità del pg – dice il legale – dinnanzi a tutto questo non posso non chiedermi con profonda tristezza nel cuore perché si continui ad accanirsi con una ostinazione senza pari e ignorando le prove di fatti nonostante, io le abbia pure rappresentate queste prove, contro il generale Mori, una persona che per tutta la vita ha servito fedelmente queto ingrato paese”. Milio ha ribadito quanto già rappresentato nel processo di primo grado: “Si continua a parlare del favoreggiamento di Provenzano, da cui Mori è stato assolto in via definitiva, e lo si inquadra nella cosiddetta trattativa. Il ne bis in idem è evidente dunque“, ha detto ancora.
L’avvocato Francesco Centonze, legale di Dell’Utri ha definito la requisitoria dell’accusa come “mix di suggestioni create dall’accusa per provare a ribaltare una sentenza definitiva”, alludendo al verdetto che ha scagionato l’ex senatore azzurro dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per il periodo successivo al 1992, condannandolo per gli anni precedenti. ” Invece di uscire dal suo cantuccio – dice Centonze- la procura generale preferisce restare nella sua zona di conforto”. Il legale ha bollato come “deduzioni prive di dimostrazioni e mere massime di esperienza le argomentazioni dell’accusa. L’accusa discetta di sociologia, fa deduzioni, insomma guarda il dito e non la luna”. Proprio l’avvocato di Dell’Utri aveva citato come teste della difesa Silvio Berlusconi. L’ex premier, però, aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere, non testimoniando a favore del suo storico braccio destro. “Vuole sapere come mi sento? Come un turco alla predica… Non ho capito nulla di quello che hanno detto, non so di cosa parlano. Nulla”, ha detto l’ex senatore prima di lasciare l’aula bunker del carcere Pagliarelli.