L'ex agente del KGB aveva chiesto asilo in Gran Bretagna. Morì avvelenato a Londra. La sentenza europea conferma i risultati di un'inchiesta britannica del 2016. La replica di Mosca: "Accuse infondate"
La Russia è responsabile dell’omicidio Aleksander Litvinenko, l’ex spia del Kgb avvelenata nel 2006 mentre si trovava nel Regno Unito. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Litvinenko, 43 anni e critico di Putin, si era rifugiato in Gran Bretagna dopo una fuga durata 6 anni. L’avvelenamento era avvenuto a Londra tramite polonio 210, un rarissimo isotopo radioattivo. Mosca aveva sempre negato il suo coinvolgimento, anche che nel 2016 un’inchiesta britannica aveva ipotizzato che l’assassinio fosse stato opera dell’intelligence russa. Oggi la Corte di Strasburgo – dopo il ricorso presentato dalla vedova Marina contro lo Stato – ha confermato la tesi: gli agenti avrebbero infatti agito per conto del governo che non fornito “alcuna altra spiegazione soddisfacente e convincente” per smentire l’ipotesi. Un altro indizio di colpevolezza sono stati i tentativi – bocciati dalla Corte – di giustificare l’omicidio come “ricorso alla forza assolutamente necessario” previsto dal comma 2 dell’articolo 2 della Convenzione di Strasburgo. La Russia dovrebbe pagare un risarcimento di oltre 100mila euro alla famiglia di Litvinenko e altri 22 mila e 500 per le spese legali.
Aleksandr – “Sasha” – Litvinenko aveva lavorato prima per il Kgb e poi dell’Fsb, il servizio federale di sicurezza russa. I suoi incarichi – descritti come delicati e al confine della legalità – erano stati prima nell’Unità per la sicurezza economica e la criminalità organizzata, poi nell’antiterrorismo durante la prima guerra in Cecenia e infine per un’unità segreta di prevenzione della criminalità. Negli anni ’90 però era entrato in contrasto con il nuovo direttore dell’agenzia di spionaggio russa, Vladimir Putin per le sue amicizie con la giornalista Anna Politkovskaya – uccisa a Mosca nel 2006 – e con l’oligarca Boris Berezovsky. Nel 1998 aveva denunciato in una conferenza stampa a Mosca l’ordine – ricevuto l’anno precedente dai superiori – di uccidere proprio Berezovsky, poi morto anche lui a Londra nel 2013 in circostanze non del tutto chiarite nel bagno della sua residenza fuori città. Proprio l’ex uomo di potere russo avrebbe potuto essere “una delle figure chiave dell’inchiesta”: legato a Litvinenko dal 1994, aveva finanziato per diversi anni il suo espatrio e il suo mantenimento nel Regno Unito, dove l’ex spia aveva chiesto asilo politico.
Dopo la fuga dalla Russia, nel 2000, Sasha era stato naturalizzato cittadino britannico aveva lavorato per l’MI6, l’intelligence del Paese. Le sue rivelazioni avevano gettato una nuova luce su diverse questioni della politica russa. Aveva resto noto il coinvolgimento del Fsb nelle esplosioni dei condomini in tutta la Russia nel 1999, poi utilizzati come segno della minaccia terroristica e giustificazione l’invasioni della Cecenia. Sua era poi stata la denuncia dei legami fra Putin e il clan malavitoso di Pietroburgo Tambov. La sua morte, il 23 novembre 2006, era avvenuta dopo un’agonia di 3 settimane: secondo gli inquirenti, gli agenti russi gli avevano somministrato una dose di Polonio 210 – rintracciata dai medici solo dopo il decesso in un’autopsia ad altissimo rischio -, in una tazza di tè corretto al Pine Bar del Millennium Hotel di Londra. Lì Litvinenko aveva più volte incontrato due suoi connazionali, anche loro uomini dei servizi russi, Andrei Lugovoi e Dmitry Kovtun, che avrebbero tentato di uccidere – per ordine dell’allora direttore del Fsb, Nikolai Patrushev e del presidente Putin – l’ex collega in due occasioni, il 16 ottobre e il 1 novembre 2006. I due sono stati incriminati dalla Polizia britannica, ma il primo – in quanto deputato – gode dell’immunità, mentre il secondo è ancora a piede libero in Russia. Nella sentenza di condanna della Corte dei diritti umani si rileva, a questo proposito, anche la mancanza di collaborazione delle autorità di Mosca con le indagini internazionali e il rifiuto dell’estradizione richiesta dal Regno Unito. Ma anche l’assenza di una qualsiasi inchiesta interna “in grado di stabilire i fatti e l’identificazione e la punizione delle persone responsabili dell’assassinio”.
Le prove scoperte da una public inquiry del 2015 – condotta dal giudice Sir Robert Owens su materiale classificato a porte chiuse- comprendono una conversazione del 2002: Litvinenko raccontava ad un altro dissidente, Bukovsky – considerato dalle autorità un “traditore” al pari di Sergei Skripal – di aver ricevuto una telefonata da un vecchio contatto dell’Fsb. L’agente gli avrebbe detto: “Ti senti sicuro in Gran Bretagna? ma come, non ti ricordi di Trotzky?“. In seguito alla notizia della morte Putin avrebbe poi dichiarato: “Chi lo ha fatto non è il Signore Onnipotente e Litvinenko non è sfortunatamente Lazzaro“. Un’affermazione legata enigmaticamente a un altra frase, ritrovata dalla vedova dell’ex spia uccisa nel suo diario: “Quando Lazzaro si alza dal letto di morte, nessuno gli ha fatto domande. E’ necessario rispettare il silenzio dei morti“.