La storia si è ormai trasformata in storiella. C’erano un italiano, un inglese e una miriade di altre nazionalità. L’abbiamo raccontata per un’estate intera. Da giugno fino al confine con l’autunno. Cambiano le discipline, ma il finale è (quasi) sempre lo stesso. L’uomo in maglia azzurra che alza al cielo una coppa, che poggia le labbra su una medaglia dorata. E tutti gli altri che stanno a guardare. Con lo sguardo basso. Per quasi quattro mesi lo sport azzurro è stato orgasmo collettivo, governo di unità nazionale per un popolo che si scopriva giorno dopo giorno più diviso. Il successo è diventato seriale. Uno spettacolo da ammirare una puntata dopo l’altra. Trofei in dosi massicce. Prima e dopo i pasti. L’Italia s’è desta. Oppure, se preferite, un’estate italiana. Stavolta per davvero. La stagione delle prime volte si è sovrapposta a quelle delle certezze. Tanto che tenere la contabilità dei successi e dei traguardi storici è praticamente impossibile.
Solo che mentre l’adrenalina è ancora in circolo, mentre l’ebbrezza non è ancora smaltita, un’ombra nera sembra fare capolino all’orizzonte. Qualcuno afferma che ripetere quanto fatto in questa estate è quasi impossibile. Dal punto di vista qualitativo. Dal punto di vista quantitativo. Per capire se si tratta di eccesso di pessimismo o di realismo spietato bisognerà aspettare. L’interrogativo però ha fondamento. Perché questa pesca miracolosa, questo scintillio di medaglie si porta dietro un rischio. Quello di rendere monodimensionale lo sport tricolore, di analizzarlo utilizzando il presente e non il futuro. La politica si è espressa pescando a mani piene dalle frasi spot che seguono ogni trionfo. E allora via alle solite dichiarazioni sullo sport nelle scuole, sugli impianti arcaici, sui piccoli movimenti da sostenere. Tutto giusto. Tutto corretto. Solo che senza un vero intervento stavolta si rischia la dispersione.
La stagione di massimo splendore dell’atletica italiana (dai cento metri piani alla staffetta, passando per il salto in alto) e le 69 medaglie conquistate alla paralimpiadi sono due facce della stessa medaglia. Ripetersi sarà comunque difficile. Ma senza centri moderni, senza poli d’attrazione che rendano l’allenamento qualcosa di diverso dal martirio, senza impianti accessibili e privi barriere, senza strumenti che annullino la continua crisi di vocazione, i risultati ottenuti in questa estate rischiano di essere un momento luccicante ingoiato dall’oblio, materiale buono per il nostalgismo. Un problema che sembra riguardare anche il ciclismo. I successi di Filippo Ganna non bastano a coprire la realtà di un movimento che non sta vivendo il momento migliore della sua storia. Perché dietro al cronoman più forte del mondo ci sono ciclisti capaci di andare forte su corse lunghe un giorno, come Alberto Bettiol e Sonny Colbrelli. Mancano però uomini in grado affermarsi in una grande corsa a tappe, non ci sono figure paragonabili ai campioni del passato, capaci di alzarsi sui pedali fino a trasformarsi in sentimento.
Anche il calcio è un punto interrogativo. Roberto Mancini è stato commissario tecnico e sciamano insieme, un allenatore capace di infondere una mentalità da club a una nazionale. Eppure la squadra campione d’Europa guarda al Mondiale con un pizzico di apprensione. Le opzioni a disposizione sono piuttosto limitate. Il dopo Chiellini e la scelta del centravanti sono le due grandi spine nella rosa azzurra. I nuovi innesti portano i nomi di Zaniolo, Pellegrini, Raspadori, Scamacca e Kean. Tutti ottimi giocatori. Qualcuno addirittura tendente al campione. Eppure Mancini dovrà trovare modo di inserirli nel gruppo. E, soprattutto, di creare un sistema di gioco capace di esaltare le qualità dei due romanisti. Un compito che potrebbe rivelarsi meno semplice del previsto. Soprattutto per la filosofia mostrata durante gli Europei.
La finale di Wimbledon conquistata, e poi persa, da Matteo Berrettini è stata invece una grande sorpresa. Non ha solo mostrato al mondo il talento di un ragazzo di 25 anni. Ma ha ci ha fatto anche innamorare della sua capacità di gestire una sconfitta che deve diventare base di partenza. L’età anagrafica suggerisce che l’era dei tre fenomeni è agli sgoccioli, che in un futuro più o meno prossimo ci sarà spazio per inserirsi nella lotta al vertice. L’Italia può contare su tre giocatori nei primi 25 al mondo (Berrettini è settimo, Sinner quattordicesimo, Sonego ventiquattresimo). E devono essere loro a fare da traino per un movimento che sembra finalmente in crescita.
I successi del volley, tanto maschile quanto femminile, ci hanno parlato di futuro, di ricambio generazionale, di possibilità di estendere un dominio. Non era affatto scontato, visto come si erano concluse le Olimpiadi di Tokyo appena un mese fa. Le nostre ragazze fuori ai quarti. Proprio come i nostri ragazzi. Dopo i Giochi è cambiato tutto. Il volley maschile è ripartito da un nuovo ct, Fefé De Giorgi, che ha abbracciato una filosofia tanto chiara quanto rischiosa. Arrivederci ad alcuni senatori, dentro ragazzi giovani e in qualche caso inesperti. Ne è uscita la squadra con l’età media più bassa dell’Europeo. Che è salita sul tetto del Vecchio Continente. “Siamo solo all’inizio, anche se è un bell’inizio“, ha commentato De Giorgi. Ed è vero. Ora la speranza è di dover aggiungere qualche mattone. E non di essere costretti a ricostruire tutto da capo. D’altra parte lo sport italiano è arrivato a un bivio. O trova il modo di trasformare queste vittorie in un sistema oppure questa estate resterà soltanto un ricordo straordinario. E irripetibile.