In Senato il leader di Italia viva partorisce un discorsetto di pochi minuti, in cui se la prende con bersagli quasi scontati - l'uso politico della giustizia, lo strapotere delle correnti, la guerra tra toghe intorno al caso Amara - ma senza far comprendere fino in fondo dove voglia andare a parare. Di certo la dichiarazione di voto sulla riforma Cartabia è un puro pretesto: "Non può essere un avviso di garanzia a bloccare una carriera. Le garanzie dei parlamentari sono costantemente ignorate da un utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini", attacca
“Non può essere un avviso di garanzia a bloccare una carriera. Le garanzie dei parlamentari sono costantemente ignorate da un utilizzo mediatico della magistratura e delle indagini”. Dopo aver annunciato con ore di anticipo di voler tenere “uno degli interventi più difficili” della sua carriera, in Senato Matteo Renzi partorisce un discorsetto di pochi minuti, in cui se la prende con bersagli quasi scontati – l’uso politico della giustizia, lo strapotere delle correnti, la guerra tra toghe intorno al caso Amara – ma senza far comprendere fino in fondo dove voglia andare a parare. Di certo la dichiarazione di voto sulla riforma Cartabia è un puro pretesto: “È un ottimo primo passo, che ti toglie da dove sei, cioè dalla riforma Bonafede, ma non ti porta ancora dove devi andare. Siamo nel momento più tragico della storia del potere giudiziario nella vita repubblicana”, esordisce. “Il potere giudiziario è in crisi. È in crisi per colpa della politica? No, è la politica che per anni ha litigato per colpa della giustizia, e una parte della sinistra ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie di chi stava dall’altra parte. C’è una responsabilità di tutti”, argomenta.
“Molti non hanno il coraggio di dirlo, anche tra di noi: per anni abbiamo lasciato che fossero i pm a decidere chi poteva fare politica e chi no”, rilancia. E si aggancia alla propria vicenda personale: “Sono intervenuto per dire che c’era una procura che stava oltrepassando i limiti dell’azione giudiziaria (quella di Firenze, ndr), subito dopo ho preso due avvisi di garanzia. Dobbiamo avere il coraggio di dire parole chiare su un oggettivo malfunzionamento”. Poi parla della guerra mediatica intorno ai verbali dell’avvocato Amara, che vede contrapposti – tra gli altri – l’ex consigliere Csm Piercamillo Davigo e il procuratore capo di Milano Francesco Greco: “Sono partite all’interno della magistratura tensioni, forse mai sopite in passato, che sono esplose in una guerra oggettiva, con magistrati che indagano altri magistrati. Si sta avverando la profezia di Massimo Bordin: il futuro è quel luogo dove i magistrati si arresteranno tra loro. I due superstiti del pool di Mani pulite sono alle carte bollate”, sottolinea. E ipotizza che la crisi della magistratura derivi dal fatto che è “venuta meno la guida politica 5 Stelle”, che “è stata giustizialista“, anche se dà atto a Di Maio “di aver detto parole chiare sull’uso barbaro della giustizia da parte dei 5 Stelle nel 2016 (quando fu arrestato l’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, poi assolto in Appello, ndr)”.
Il problema, dice, “non è la separazione delle carriere: è lo strapotere vergognoso che le correnti hanno all’interno della magistratura, che impedisce a dei magistrati bravi di fare carriera se non sono iscritti a correnti. È inaccettabile che la prima reazione alla notizia di un procedimento sia chiedere a che corrente è iscritto il magistrato che lo conduce. Se il Csm nella sua funzione disciplinare giudica in base all’appartenenza a una corrente, e non sulla base dei fatti, abbiamo tutti un problema”, attacca. E paragona il sistema delle correnti a quello della “partitocrazia di trent’anni fa. I magistrati devono poter fare carriera e sentirsi liberi di fare il proprio lavoro anche se non sono iscritti a una corrente. Se non usiamo il tempo che vanno da qui al rinnovo del Csm, nel luglio 2022, per scrivere una pagina nuova, non importa chi sarà il prossimo a essere coinvolto. La vera vittima della nostra inerzia sarà la credibilità delle istituzioni e la dignità della magistratura”. E conclude in modo sibillino: “Non conveniva che io parlassi ma ci sono momenti in cui avere il il coraggio di chiamare le cose con il loro nome è un dovere politico, civile e morale“.