Puntualmente, arrivano le indicazioni e i moniti dalla Commissione europea (Ce) su come affrontare e, soprattutto, “vincere” le sfide economiche, ove vogliamo tenerci incluse anche quelle ambientali e sociali e in quanto ormai i tre aspetti non possono essere più considerati in maniera separata. O almeno questo è quello che ci viene puntualmente riferito quando si affronta il tema dello sviluppo sostenibile. Ma tra il dire e il fare, lo sappiamo, c’è ancora un divario che sembra impossibile colmare.
Sono almeno tre le sfide che l’Unione europea (Ue) deve affrontare nei prossimi anni, sfide che la presidente della Ce, Ursula von der Leyen, ha ribadito anche nel suo più recente discorso (Covid-19: pandemia di coronavirus e risposta dell’Ue) sullo stato dell’Ue. Il mio commento è che non poteva capitare in un momento migliore: è proprio nella situazione peggiore che si riesce, a volte, a ribaltare la situazione avendo ormai capito che non c’è un’altra strada da seguire. Certo, sarebbe stato meglio arrivarci alcuni anni fa (almeno 10-15) se coloro che proponevano una strada diversa non fossero stati derisi, ignorati, osteggiati e anche messi a tacere.
Ora, ironia della sorte, la pandemia ci ha fatto vedere una realtà che per molti era chiara fin dall’inizio. Speriamo che il tempo perso possa essere recuperato in fretta e già sappiamo che dipenderà dalla serietà con la quale i diversi paesi metteranno in pratica quanto stanno proponendo nei rispettivi piani di programmazione. Secondo la Ce, quindi, le grandi sfide che l’Ue dovrà affrontare riguardano l’emergenza climatica, le disuguaglianze sociali, la disomogeneità nel rilancio economico, le minacce della variante Delta e, non ultimo, il peggioramento dei diritti umani.
Partiamo dal tema salute e lotta alle pandemie che è stata la vera emergenza, almeno per i parametri e indicatori con i quali siamo soliti affrontare tali situazioni, anche se dovremmo iniziare a valutarne anche altri. La pandemia ha veramente cambiato la visione del mondo, o meglio la sua percezione, e anche se a livello europeo sembra di essere riusciti a rispondere in modo omogeneo ed efficace, non pochi nutrono dubbi che la strada da percorrere debba essere un’altra. Anche perché difficilmente una strategia che ha portato al disastro possa poi risultare efficace anche per risolvere lo stesso disastro. Il cambiamento deve essere più netto e radicale.
Sebbene ad oggi più del 70% degli adulti in Europa sia stato vaccinato, il numero dei nuovi infetti non diminuisce e sono oltre 1,4 milioni le dosi distribuite in tutto il mondo (oltre 130 paesi) di cui la metà in Europa. Sembra scontato parlare di uguaglianza sanitaria ma se ne parla proprio perché ancora non abbiamo raggiunto quell’obiettivo prefissato e la Ce ha annunciato che con il Team Europe sarà a disposizione un miliardo di euro per la produzione di vaccini a mRNA in Africa. L’Ue condividerà 250 milioni di dosi e ne aggiungerà altre 200 entro la metà del 2022. Speriamo che diano i risultati auspicati e che i malfunzionamenti, la regola nel nostro paese, vengano affrontati seriamente (e qui l’Ue non può che farci bene) e, quindi, risolti con l’istituzione della nuova Autorità (Hera) creata proprio per far fronte alle future minacce sanitarie in modo più rapido e, soprattutto, migliore: impegno non da poco in quanto stiamo parlando di investimenti pari a 50 miliardi di euro entro i prossimi sei anni per la resilienza sanitaria europea.
Secondo tema rilevante, la tecnologia digitale. La carenza di materie prime, i problemi di approvvigionamento e la dipendenza da pochi produttori di materiali ritenuti strategici rischiano di fermare il processo, almeno come noi ce lo immaginiamo; ma anche qui, siamo certi che questi segnali non vadano colti in tutt’altra maniera? E che la corsa al digitale debba essere perseguita quando sono chiari gli obiettivi, utili per l’umanità e non per i soliti noti? Quindi, più che pensare a un ecosistema europeo dei microchip, come ha proposto la von der Leyen, dovremmo seriamente pensare se e come farne a meno.
Ho lasciato per ultimo il terzo tema, quello della transizione energetica che ritengo il motore di tutto il resto. Si parla ormai solo di crisi energetica con i prezzi dell’energia (soprattutto gas ed elettricità) che non fanno che aumentare, oltre alle sempre più ridotte scorte per la stagione invernale. Ma ancora non si è capito che quel modello energetico è finito? Che quello che ci ha guidato fino ad ora ci sta portando alla catastrofe, per alcuni già in corso? L’Ue viene indicata come il soggetto che potrà svolgere un ruolo da protagonista contro il cambiamento climatico, ma questo solo perché non c’è nessun altro che si sta proponendo seriamente.
L’obiettivo di una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030, quando è ben noto che lo sforzo di riduzione dovrebbe essere molto superiore (oltre 65%), fa capire che ancora non ci siamo. Ma non in termini numerici, non ci siamo perché non si è capito fino in fondo il rischio che stiamo correndo. Proporre un prezzo sempre più alto per l’inquinamento o le emissioni climalteranti è una parte del problema. Più che pensare a produrre sempre più energia (rinnovabile o no) dovremmo pensare a come farne a meno e quindi non produrla proprio e magari farci bastare (maggiore efficienza) quella che abbiamo. Visto che ancora oggi la maggior parte di essa la sprechiamo. Usiamo le risorse del nuovo Fondo sociale per il clima, 8 miliardi per l’Italia, per questo, per combattere quella povertà energetica di cui si inizia finalmente a parlare. Ci sono oltre 30 milioni di europei che ne avrebbero bisogno.
Vorrei chiudere menzionando la mia città natale, Roma. Su come sia stata gestita negli ultimi anni, soprattutto sui temi energia e ambiente, non mi ripeto ed è sufficiente rileggere i precedenti post. Ora c’è l’occasione di cambiare e mi auguro veramente che il cambio sia netto e radicale ove le tematiche ambientali vengano trattate come meritano: come una priorità e non un corollario da esibire solo durante la campagna elettorale.