L’uomo avanza nervosamente verso il centro del palco. Il piede destro davanti al sinistro. Fino a quando tutto intorno a lui non si spengono le voci. Il piede sinistro davanti al destro. Fino a quando tutti gli occhi non sono appuntati sulla sua figura. L’atmosfera è surreale. Perché si sta festeggiando un successo che da un momento all’altro potrebbe degradare in fallimento. Un mese prima il Genoa ha conquistato sul campo la Serie A. Eppure ora potrebbe inabissarsi in serie C. La sentenza arriverà solo qualche giorno più tardi. Ma tutti sanno già come andrà a finire. In quella serata del luglio 2005 Enrico Preziosi ha il corpo avvolto da un completo blu e un’espressione seria stampata sulla faccia. Non riesce a stare fermo. Neanche per un secondo. Le dita della sua mano destra stringono forte un microfono, l’indice della destra fende l’aria senza sosta. Il presidente dritto davanti a sé e prede tempo. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Poi attacca il suo discorso. “Adesso sono un po’ così, ma io sono incazzato nero. E allora dico solo una cosa”. Si ferma immediatamente per una pausa scenica. Vuole far aumentare la tensione. Vuole che tutti si concentrino sulla sua prossima frase. E riattacca. “Non mollo”, grida. Sono solo due parole. Ma le ripete con insistenza. Una volta, due volte, tre volte. Fino ad arrivare a sedici. Poco più avanti il mare rossoblù comincia a incresparsi. Centinaia di voci che si fondono insieme. E iniziano a cantare. “Non mollare mai. Non mollare mai. Non mollare mai”.
È una professione di fede. È un urlo disperato di speranza. L’incubo era iniziato un paio di mesi prima. L’11 giugno il Genoa aveva ospitato il Venezia nell’ultima sfida di campionato. La partita era un atto più formale che pratico. I lagunari erano già retrocessi. Al Genoa serviva una vittoria per salire direttamente in Serie A dopo nove anni di assenza. Sull’erba di Marassi finisce 3-2. Il Grifone ha centrato il suo obiettivo. Almeno per qualche ora. Il 14 giugno una macchina viene fermata a Cogliate. Dentro c’è Giuseppe Pagliara, un dirigente del Venezia. La perquisizione del veicolo è scrupolosa. Ma non basta. I carabinieri vogliono aprire anche una valigetta Carpisa che si trova a bordo. Dentro ci trovano una busta gialla. Con 250mila euro. In contanti. Oltre a un modulo per la cessione di Maldonado. La faccenda è piuttosto strana. Così i carabinieri iniziano a mitragliare una domanda dopo l’altra. Pagliara risponde di aver ceduto il giocatore al Grifone. E che quei soldi erano l’anticipo per chiudere l’affare. Gli inquirenti non sono convinti. Ascoltano le intercettazioni. E si convincono di trovarsi davanti a un illecito sportivo, a un tentativo di combine. È l’inizio di un processo lunghissimo che si concluderà nel 2012 con una condanna a 4 mesi per frode sportiva. Ma intanto il Genoa è retrocesso in C1.
È la prima grande sconfitta personale di un uomo che per anni è stato un vincente, un rabdomante dell’affare giusto. La sua parabola parte da Avellino. Enrico è il più piccolo di tre fratelli. La mamma lavora come maestra. Il padre come orefice. Vuol dire tasche vuote. Vuol dire pance vuote. Il suo futuro è in una terra straniera. A 16 anni si trasferisce in Calabria. Lavora in una ditta che monta Guard Rail. La stanchezza che impiomba la schiena, la fatica che addenta le braccia. Va avanti fino a quando non riesce a mettersi un po’ di soldi da parte, con grandi sacrifici. Poi nel 1965 tenta la fortuna a Milano. È un esilio autoinflitto. Ancora più lontano, ancora più solo. La sua vita sembra racchiusa in quella frase che Cacciaguida rivolge a Dante: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Preziosi trova lavoro prima alla Perfetti, poi alla Philips. Dopo qualche tempo si mette a vendere elettrodomestici. Per sette anni. Ma non fa per lui. Alla soglia dei trenta arriva l’intuizione che cambia la vita. A lui. A milioni di bambini. Enrico è chiuso nel suo garage a Baruccana di Seveso. E fonda la Giochi Preziosi. L’intuizione è tanto semplice quanto efficace. Bisogna fare da tramite. Così inizia a comprare giochi dagli importatori per rivenderli agli ambulanti. È un business redditizio, ma non basta. Enrico è ambizioso. E ha talento. Così inizia a puntare sempre più in alto. Nutre un’ammirazione sconfinata per Silvio Berlusconi. Un sentimento che nel 1990 diventerà addirittura alleanza. Perché la Standa compra una parte dei negozi a marchio Giocheria, uno dei fiori all’occhiello di Preziosi. Inizia una nuova fase della sua vita.
Il successo non è più una dimensione futura ma un presente da vivere appieno. Enrico non si limita a produrre giocattoli. Ora li crea anche. Non c’è prodotto di successo che sfugga alle sue aziende. La Giochi Preziosi cresce enormemente. Anno dopo anno. Fino a diventare il secondo gruppo del settore in tutta Europa. Dietro soltanto alla Lego. L’ultimo tassello è il calcio. Serve un club che diventi biglietto da visita, in cui travasare la sete di successo. Nel 1993 acquista il Saronno. E lo porta dalla D alla C1. Nel 1997 è il turno del Como. Il club stagna in C1. Preziosi si insedia e promette la A in cinque anni. Qualcuno lo prende per un ciarlatano. Solo che quello del presidente non è un annuncio, ma una promessa. La scalata si completa nel 2002. I biancoblù vincono il campionato cadetto. E volano in A per la prima volta nella loro storia. È un periodo di grandi intuizioni e di abbagli smisurati. “Quando ero presidente del Como avemmo Messi per un provino – dirà Preziosi – Aveva 15 anni e lo scartammo”. La stagione è piuttosto complicata. I risultati non arrivano. Dopo la sconfitta in casa del Bologna il presidente si lamenta di alcuni torti arbitrali. E gli si accende una lampadina. Calcio e giocattoli non devono più essere separati. Preziosi dà alle stampe “Questo gioco del ca…lcio. Per quelli che credono ancora in Babbo Natale”. È una versione tutta particolare del gioco dell’oca dove ognuno può diventare presidente di una squadra e confrontarsi con una serie di imprevisti. Dalle nottate con le veline ai finti infortuni. Passando per le manovre di “disturbo” delle big. Completa l’opera una scatole dove c’è impressa la caricatura di Carraro nei panni dell’uomo nero e di Galliani, Moggi e Giraudo che scappano con le tasche piene di soldi e il pallone sotto braccio. Ma non basta.
Preziosi pensa anche ad Acchiappa l’arbitro. Un gioco dove invece di prendere a martellate gli animali bisogna centrare la testa di un direttore di gara. Secondo qualcuno non è un gioco esattamente educativo. E infatti non entrerà mai in produzione. Il resto non andrà poi meglio. “Como per me è una ferita, che dà fastidio, che fa rabbia e disgusto. Quando vedo il cartello ‘Como’ mi viene il mal di stomaco. Troppo brutto quello che è successo, e io sono la vittima”, ha raccontato qualche anno fa a La Provincia di Como. E ancora: “Sono stato arrestato per il Como, dopo aver cercato di evitare il fallimento a tutti i costi. La città ha cercato di farmi fuori. A metà del primo anno di B capii che era una città che voleva dormire. Fu lì che decisi di lasciarla dormire. Dissi che ci voleva uno stadio-azienda, con i negozi, i ristoranti, che vivesse tutta la settimana. Sembravo un marziano; oggi lo dicono tutti. Non c’era la volontà di realizzare un progetto simile: insultai il sindaco Bruni al telefono perché era un voltagabbana”. Ma Preziosi non si accontenta più di un club capace di fare da comparsa in Serie A. Ora sogna il blasone. Nel 1996 cerca di comprare il Torino. Ma senza successo. La storia si ripete con Sampdoria (2001) e Fiorentina (2002). Sempre senza lieto fine. L’estate del 2003 è quella della svolta.
Il Genoa, a rischio fallimento, è sprofondato in C1. Ma il caso Catania rischia di bloccare le retrocessioni. Preziosi acquista il club più antico d’Italia. Lo accolgono 3mila tifosi. Con cori e ovazioni. Ogni dichiarazione del presidente assomiglia a un comizio: “La gente rossoblù viene da 10 anni di ferite laceranti, a loro non posso promettere successi, perché nel calcio vincere non è mai scontato, ma garantisco che nel tempo avranno sempre una squadra competitiva in qualunque categoria il Genoa dovesse militare. Non posso regalare sogni, ma un progetto importante“. Èd è vero. Mentre Preziosi si concentra sul Genoa il Como fallisce. È una pagina nera. Ma sembra già così lontana. Il presidente non vuole più sentirsi solo come era successo il riva al lago. Così cerca una totale immedesimazione con i suoi nuovi tifosi. Pensieri, parole, opere e omissioni si muovono tutte nella stessa direzione. Il primo annuncio è particolare. Donadoni sarà il nuovo allenatore. Ma la parte più curiosa è un’altra. Se il Grifone dovesse essere ripescato in B, allora Preziosi si tufferà nella fontana di Piazza De Ferrari. Con giacca, cravatta e ombrello. “Quasi mi stupisco di aver tifato Napoli per 50 anni, mi sembra di essere genoano da sempre”, giura. Ogni dichiarazione è una piccola bomba contro le istituzioni. “Mai avevo fatto così tanta fatica per l’acquisizione di una società. Mi sono imbattuto in difficoltà continue ed impreviste. Il nemico più difficile da battere è stata la burocrazia”, dice. “Non voglio privilegi, ho già detto ai politici che se vogliono bene al Genoa lo dimostrino pagando il biglietto. A Como non ho mai partecipato a incontri o manifestazioni promossi dalle istituzioni: non lo faccio per snobismo e nemmeno perché sono introverso. È che arrivo alla sera stremato e ho solo voglia di dormire”, assicura.
D’altra parte anche Cesare Pavese diceva che “ogni notte è una liberazione”. Enrico è l’uomo nuovo. Un presidente di calcio che non va mai nel pallone, un leader che sa sempre cosa fare, un imprenditore che irradia successo fino ad assomigliare a quel Capofortuna cantato da Rino Gaetano. “Sembra immortale, ma è come noi”. O almeno così sembra. “Mi è stata lasciata in eredità una società che va completamente ristrutturata – racconta – Non c’è quasi niente che funzioni, bisogna intervenire anche sui dettagli. Dando un’occhiata ai conti mi sono stupito di quante magliette servivano ai giocatori del Genoa e anche di quanta acqua minerale è stata consumata”. La partita di Preziosi sarà lunghissima. Ma inizia con un autogol. Perché fra le sue prime decisioni c’è l’aumento del costo degli abbonamenti. “Lo confesso: è stata una piccola provocazione, in fondo con i 300mila euro che entreranno in cassa ci pagherò un mignolo di Caccia – spiega – ma a me piace giocare e così ho quasi sfidato i tifosi: questo grande amore dalle parole trasferiamolo ai fatti. A chi bacia la maglia e dice che ci va a dormire la notte con la casacca rossoblu, dico che per il Genoa deve saper rinunciare a una birra”. È l’incipit di un romanzo lungo 18 anni. Un’era fatta di allenatori accolti, cacciati, ripresi e poi di nuovo banditi. Tutto con grande disinvoltura.
L’unico che può sentirsi a tempo indeterminato è Gian Piero Gasperini. Nell’estate del 2006 prende il Grifone in B e lo porta prima in A, poi in Europa League. La corsa dura sei partite. Il Genoa è inserito nel Gruppo B insieme a Valencia, Lilla e Slavia Praga. Chiude con 7 punti che valgono il terzo posto. E l’arrivederci a una competizione che finora è sembrato più un addio. Il primo divorzio si consuma nel novembre 2010. Il Genoa mette insieme 11 punti in 10 partite. È troppo poco. Preziosi cambia. Via Gasperini, dentro Ballardini. È una successione dinastica che dirà molto del futuro del club. Gli allenatori iniziano a saltare. Uno dopo l’altro. Ancora e ancora e ancora. Nell’aprile del 2012 il Genoa sta perdendo 0-4 in casa. Contro il Siena. All’inizio della ripresa i tifosi iniziano a lanciare i fumogeni in campo. La partita viene sospesa. Ma non basta. Dagli spalti chiedono ai giocatori di sfilarsi le maglie del Genoa. Perché non sono degni di indossarle. Preziosi entra in campo. La squadra si sfila le casacche e le consegna al capitano Marco Rossi. Poi Sculli si appende alla balaustra e inizia a parlare con i capi della tifoseria. Cerca la mediazione. Alla fine i giocatori si rimettono le maglie e riprendono la partita. Nonostante una sospensione di circa 45 minuti. Preziosi usa parole durissime: “Dispiace che 60, 100 persone hanno l’impunità di dire e fare quello che gli pare senza che si possano controllare e mandare a casa. Non è possibile che si impadroniscano dello stadio e impongano la loro legge. Spero a questo punto che ci venga squalificato il campo ed andremo così a giocare fuori in maniera più serena”.
Il pomeriggio gli inquirenti intercettano una telefonata. Da un capo della cornetta c’è Massimo Leopizzi, uno dei capi ultrà dei Genoa. Dall’altro Giuseppe Sculli. Il tifoso parla di quanto successo in campo e inizia a insultare Preziosi. Ma si spinge addirittura oltre. Dice di aver salvato il presidente del club dalla prigione testimoniando il falso a proposito del caso Genoa-Venezia. Il calciatore ascolta e poi ribatte: “Ma le parole che gli ho detto io sai quali sono state? Gli ho detto: presidente, vai via, perché più ti avvicini e più questi si inferociscono perché a te non ti possono vedere”. In quel momento il rapporto con i tifosi va in pezzi. Dopo tre anni si celebra la riconciliazione con il tecnico dei miracoli. Nell’ottobre del 2013, dopo le avventure non esaltanti con Inter e Palermo, il tecnico è di nuovo in rossoblù. “Torno a casa”, dice. Ma il problemi arrivano fuori dal campo. Preziosi viene condannato a un anno e sei mesi per il mancato versamento dell’Iva per l’anno 2011. Il numero uno rossoblù non ci sta. Lui aveva avviato una rateizzazione del debito con l’Agenzia delle Entrate. Quindi il reato doveva essere estinto. Così ricorre in appello. Deve aspettare quattro anni. Ne vale la pena. Perché stavolta i giudici gli danno ragione. Preziosi è assolto. E gli vengono restituiti i beni che gli erano stati sequestrati per compensazione. Due anni più tardi si apre un’altra inchiesta. Secondo la magistratura milanese Preziosi (così come Paparesta, ex arbitro e allora presidente del Bari) ha “abbellito” il bilancio del Genoa per passare indenne l’esame della COVISOC e poter iscrivere la squadra al campionato di A. Un iniezione di 15 milioni di euro che gli inquirenti hanno definito doping finanziario. Nel 2015 la squadra chiude sesta.
Vuol dire tornare a giocare le coppe europee. Solo che c’è un problema. Il Genoa non ottiene la licenza Uefa. Ed è costretto ad abdicare. Il rapporto fra Gasperini e Preziosi va in pezzi. Nel 2016 Gasperini saluta. Stavolta per sempre. Va all’Atalanta. Tornerà ancora, ma solo da avversario. Nel 2017 la Dea batte il Genoa al Ferraris per 0-5. Per Preziosi Gasperini diventa un verso di La Signora di Lucio Dalla: “Quell’amico diventato nemico che mi ruba la voce”. Quando si presenta davanti alle telecamere il presidente è a terra. “Abbiamo toccato il fondo oggi. I genoani saranno accontentati. Come? Vogliono che io non ci sia, allora verrà qualcun altro. E buona fortuna a chi mi sostituirà”. Ballardini diventa il suo capro espiatorio preferito. Porta risultati. Viene cacciato. E poi ripreso. Per quattro volte. A settembre del 2018 parte bene, ma il rapporto col presidente è ai minimi termini. Il licenziamento assume contorni surreali. “Penso di essere un bell’uomo, e magari Preziosi è invidioso di me”, dice Ballardini. È uno scherzo. Ma il presidente non gradisce. “È scarso, non sa mettere in campo la squadra”, tuona recapitandogli l’esonero. Per quasi vent’anni Genova è stato un crocevia di talenti. Milito, Criscito, Thiago Motta, Perin, Palacio, Perotti, Piatek. Tutti presi. Tutti rivenduti. A caro prezzo. Il dopo Gasperini è un inno alle plusvalenze. La squadra che inizia il campionato viene smontata a gennaio. Sistematicamente. I sogni si fanno sempre meno ambiziosi. Il rapporto con i tifosi sempre più logoro. Ci si sopporta a vicenda, nella speranza di un cambiamento. Le voci su una possibile cessione del club si ripetono. Ma non si concretizzano. Mai. Almeno fino a oggi, quando finisce ufficialmente la reggenza di uno dei presidenti più discussi degli ultimi anni. Preziosi ha venduto a 777 Partners, un fondo a stelle e strisce che nel 2018 ha acquistato il 6% del Siviglia. Si apre una nuova era. Per il Genoa. Per il calcio italiano.