L’uso dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) per introdurre le misure di contenimento della pandemia da parte del governo Conte è stato legittimo. La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la prima questione di costituzionalità in merito: quella posta dal giudice di pace di Frosinone rispetto agli articoli 1, 2 e 4 del decreto-legge 19 del 25 marzo 2020 (“Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica”) i quali, a giudizio del ricorrente, delegavano in modo illegale al governo la funzione legislativa che la Carta attribuisce al Parlamento. Secondo il ricorso, infatti, quelle norme avevano introdotto una nuova “forma di delegazione legislativa (…) non solo non prevista dalla Costituzione, ma in aperto contrasto con la stessa e in particolare con il principio indiscusso di tipicità delle fonti-atto di produzione normativa”.
Una prospettazione bocciata in pieno dalla Consulta: “Non è stata attribuita altro che la funzione attuativa del decreto legge, da esercitare mediante atti di natura amministrativa”, si legge nel comunicato stampa che anticipa le motivazioni, non ancora depositate. Insomma, al contrario di quello che opinionisti e politici hanno ripetuto per mesi, i Dpcm non erano una “scorciatoia” che il governo Conte usava per legiferare senza passare dal Parlamento, ma semplici provvedimenti attuativi di norme contenute in decreti-legge, puntualmente convertiti dalle Camere. “Le notizie sul fatto che siano state respinte le censure contro il nostro operato e i Dpcm ci confortano. Ma, lo dico da giurista, quando si tratta di mettere in sicurezza il Paese nulla deve fermare chi ha una responsabilità di governare“, è il primo commento dell’ex premier e leader del Movimento 5 Stelle, durante un punto stampa a Roma prima del comizio con la candidata sindaca Virginia Raggi.
I giudici costituzionali hanno invece ritenuto inammissibile la questione rispetto al primo decreto-legge che autorizzava il governo a intervenire con Dpcm, il numero 6 del 23 febbraio 2020, perché le sue previsioni – quasi del tutto superate dal decreto di marzo – non si applicavano al caso sottoposto al giudice di Frosinone. E cioè un ricorso contro una multa di 400 euro, irrogata il 20 aprile dello scorso anno dai Carabinieri di Trevi nel Lazio a un cittadino che “si spostava a piedi in assenza di comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o di motivi di salute, all’interno del Comune”, in violazione delle regole introdotte dal Dpcm del 22 marzo. “Per decidere la controversia, questo giudicante deve fare applicazione delle disposizioni citate, la cui illegittimità costituzionale condurrebbe a ritenere legittimo il comportamento tenuto dal ricorrente”, scriveva il giudice di pace rimettente, l’avvocato Emilio Manganiello, nell’ordinanza di rimessione. I decreti-legge di febbraio e marzo 2020, sosteneva, “hanno delegato al Dpcm il potere di di dettare vere e proprie norme generali e astratte derogatorie di fonti normative di rango primario, aventi cioè forza di legge“.
“Il sistema decreti-legge/Dpcm ha previsto una forma di vera e propria delega legislativa” ulteriore rispetto a quella disciplinata dalla Costituzione, argomentava l’ordinanza, in quanto i Dpcm “hanno introdotto nuovi illeciti amministrativi, come ad esempio il divieto di spostamento” disattendendo la legge 689/81 che invece riserva questa facoltà soltanto alla legge stessa. Quindi, concludeva il giudice, i Dpcm hanno ricevuto “una vera e propria “forza di legge”, nonostante siano pacificamente meri atti amministrativi”. E a sostegno della tesi citava un intervento sul Messaggero scritto a dicembre Sabino Cassese, l’ex giudice costituzionale da sempre fiero oppositore dei decreti contiani, dal titolo “Troppe norme scritte senza buon senso, così si alimenta la sfiducia dei cittadini”. “In conclusione – riassumeva il giudice di pace – deve ritenersi come il sistema sopra riportato (…) abbia aggirato il principio cardine di cui agli articoli 76 e 77 della Costituzione, per cui la funzione legislativa è affidata al Parlamento, che può delegarla solo con una legge-delega e comunque giammai ad atti amministrativi” come i Dpcm. Una ricostruzione di cui la Corte, però, ha negato la validità.
Non solo. L’avvocato Manganiello contestava, a monte, il fatto che i decreti anti-Covid del 2020 volessero creare un nuovo “statuto normativo dell’emergenza“, nonostante la Costituzione preveda “un unico statuto dell’emergenza previsto per l’ipotesi, disciplinata dall’articolo 78, dello stato di guerra. Nessuna altra ipotesi di emergenza, nel nostro ordinamento, può essere fonte di poteri speciali o legittimanti fonti di produzione normativa diverse da quelle previste”. Anche questa suggestione, però, evidentemente non è stata considerata valida. “È presto per trarre delle conclusioni, ma non ritengo che dalla preannunciata sentenza della Corte derivi un indebolimento delle garanzie quanto a fonti normative, leggi e Dpcm. Questi ultimi come atti amministrativi generali non possono che essere attuativi di una legge”, commenta all’AdnKronos, l’ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli. “Sarà molto interessante leggere la motivazione che interpreterà meglio il sistema dell’assetto delle fonti, in un momento storico come l’attuale in cui si possono essere ingenerate confusioni interpretative”. Nei prossimi mesi la Corte sarà chiamata a esprimersi su nuove questioni riguardanti i Dpcm sollevate da altri giudici, relative in particolare all’articolo 16 che garantisce la libertà di movimento e consente di limitarla solo in forza di una legge.