di Roberto Iannuzzi *
La rocambolesca evacuazione dell’aeroporto di Kabul e l’annuncio che Usa e Regno Unito aiuteranno Canberra a costruire sottomarini a propulsione nucleare, in un quadro di rafforzata collaborazione tecnologico-militare volta al contenimento della Cina, ci dicono qualcosa sulle nuove priorità statunitensi, sulla coesione dell’Occidente e sulle fratture che attraversano l’Europa.
Si chiude l’era delle grandi spedizioni militari americane inaugurata vent’anni fa con l’invasione dell’Afghanistan in nome della “guerra al terrore”, e ritorna l’era della “competizione fra grandi potenze”. Questa seconda espressione, da tempo dimenticata, tornò in auge a partire dal 2017, diventando uno dei principi fondanti della Strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump. E da allora non è più stata abbandonata dagli strateghi di Washington.
Il ricorso a questo concetto è di fatto un’ammissione del declino statunitense. L’era unipolare americana, iniziata all’indomani del trionfo sul blocco sovietico, è finita anche a causa dei disastrosi interventi militari dell’amministrazione Bush (Afghanistan, Iraq) seguiti dalle imprese meno imponenti ma non meno fallimentari di quella Obama (Libia, Siria). Tra le due amministrazioni, la crisi finanziaria del 2008 ha inferto un colpo mortale alla globalizzazione “made in USA”. Il confronto con Mosca, dalla Siria all’Ucraina, e la guerra commerciale con Pechino hanno fatto il resto. Ma se la “competizione fra grandi potenze” viene ora considerata prioritaria anche dall’amministrazione Biden, ciò non significa che la “guerra al terrore” sia un capitolo chiuso per la Casa Bianca. Cambiano solo le modalità di approccio (maggiore ricorso a droni e forze speciali).
Gli Stati Uniti, dunque, sembrano non rinunciare ad impegnarsi in un confronto “contro tutti”, in primo luogo grandi potenze come Cina e Russia, ma anche medie potenze come l’Iran, e infine attori non-statuali come i gruppi jihadisti.
L’apparentemente rinnovata assertività di Washington, di cui l’accordo con l’Australia costituirebbe un esempio, in realtà continua a parlarci del declino statunitense. “America is back”, disse il neoeletto presidente Biden. Ma l’intesa con Canberra è solo l’ultima di una serie di iniziative frammentarie nell’Indopacifico (da taluni definite minilaterals), che semmai testimoniano la difficoltà degli Stati Uniti a creare un fronte unitario e coeso da contrapporre al rivale cinese.
Nello specifico, la collaborazione anglo-americano-australiana (Aukus) per la costruzione di sottomarini nucleari è solo un accordo preliminare, che ha diversi aspetti negativi. Esso ha l’effetto di urtare la suscettibilità di Pechino e accrescere i rischi di proliferazione nucleare (altre potenze non nucleari potrebbero voler seguire l’esempio australiano). Allo stesso tempo, a Canberra mancano know-how e infrastrutture. Insomma, si tratta di un progetto industriale che parte da zero e potrebbe aver bisogno di almeno vent’anni per essere completato. Semmai, salta all’occhio il ritorno a logiche di potenza che sembravano tramontate e appaiono pericolose quanto velleitarie, in una fase in cui le principali emergenze del pianeta sono i cambiamenti climatici, le disuguaglianze e le ricadute economiche del Covid-19.
L’Australia, un paese di 25 milioni di abitanti fiaccato dai disastri ecologici e da un lockdown draconiano che ha suscitato allarme per la democrazia nel paese, ha accettato una posizione subalterna in uno schieramento i cui altri due membri hanno essi stessi le loro crisi, economiche e democratiche, da affrontare. Malgrado le ambizioni da “Global Britain”, Londra è appena un gradino sopra Canberra, costretta a elemosinare senza successo un accordo di libero scambio a Washington. L’Australia si è così inimicata il proprio principale partner commerciale (la Cina) e ha suscitato le ire della Francia. Con Parigi Canberra aveva siglato un precedente contratto per la costruzione di sottomarini, ora rescisso – “una pugnalata alle spalle”, secondo i francesi.
Se dunque assistiamo a un ricompattamento dell’anglosfera, come è stato osservato, ciò avviene a scapito di due nuove fratture nel fronte occidentale, una transatlantica ed una intra-europea. L’orgoglio francese è doppiamente ferito, non solo per la perdita di un affare commerciale, ma perché Parigi, con più di un milione e mezzo di cittadini nei suoi possedimenti d’oltremare, si considera (un po’ presuntuosamente) una potenza dell’Indopacifico. Washington avrebbe avuto benefici anche dal precedente contratto francese, che prevedeva l’installazione di sistemi d’arma americani. La mossa statunitense è perciò chiaramente uno smacco sia per Parigi che per l’Europa, colpevole secondo gli Usa di avere un atteggiamento troppo “dialogante” con la Cina. La crisi fra Parigi e Londra, dal canto suo, acuisce precedenti animosità affiorate durante i negoziati sulla Brexit, nei quali la Francia giocò un ruolo intransigente secondo gli inglesi.
Map of the #French military presence in the #IndoPacific #France has been recently increasing its naval deployments in the #IndoPacific as #China becomes more assertive in its maritime claims
Via @YvonneTelting pic.twitter.com/W9ymS7Ss9G— Indo-Pacific News – Watching the CCP-China Threat (@IndoPac_Info) February 21, 2021
Malgrado le rassicuranti parole di Biden all’Assemblea generale dell’Onu, la richiesta americana è esplicita, come lo fu in occasione della guerra al terrore: “o con noi o contro di noi”. Ciò non promette nulla di buono, non solo nell’Indopacifico ma anche in un’Europa priva di strategie coerenti, guidata dal disorientato asse franco-tedesco.
* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
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