I finanzieri hanno eseguito nelle province di Foggia, Lecce e Rovigo, un’ordinanza con sette misure cautelari personali, emessa nei confronti dei vertici del movimento politico. "L’obiettivo principale era quello di presentare candidature in piccole realtà territoriali dove - approfittando della specifica normativa settoriale - vi era una buona probabilità di eleggere un proprio rappresentante per ottenere una visibilità sull’intero territorio nazionale"
Liste clonate, candidati che non sapevano di esserlo, consiglieri comunali fantasma. C’è un po’ di tutto nell’inchiesta Candidopoli, condotta dalla Guardia di finanza di Padova, su mandato della Procura di Rovigo che ha scoperchiato lo strano sistema elettorale orchestrato da “L’Altra Italia”, un movimento politico che si è presentato in numerose contese elettorali locali. I finanzieri hanno eseguito nelle province di Foggia, Lecce e Rovigo, un’ordinanza con sette misure cautelari personali, emessa nei confronti dei vertici del movimento politico. Agli arresti domiciliari è finito il fondatore, nonché segretario nazionale Mino Cartelli. Nel 2020 in Puglia sosteneva la candidatura di Raffaele Fitto alla presidenza regionale. Per quattro persone è stato emesso l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, mentre due consiglieri comunali autenticatori (tra cui il vigile urbano Francesco Foti, presidente del movimento e consigliere comunale a Barbona) hanno ricevuto la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pubbliche funzioni per 12 mesi. L’altro consigliere è Gianluca Tritiello di Lecce. Destinatari dell’obbligo a presentarsi anche Franco Merafina di Cerignola e Felicetta Tartaglia di San Paolo di Civitate. In totale sono state denunciate 15 persone, sia membri del direttivo di “L’Altra Italia”, sia pubblici ufficiali compiacenti per violazione del Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali.
Le indagini sono cominciate nel 2020 a seguito di servizi giornalistici e delle puntate di “Striscia la notizia” riguardanti la presentazione di false liste elettorali. I primi accertamenti avevano permesso agli investigatori di verificare come nel corso delle tornate elettorali per la nomina di sindaco e consigliere comunale a Barbona e Vighizzolo d’Este, in provincia di Padova (maggio 2019 e settembre 2020) “il movimento politico avesse presentato liste di candidati formate da soggetti iscritti, nella maggioranza dei casi, a loro insaputa”. La Procura di Rovigo, competente per territorio, aveva esteso le indagini agli altri 21 Comuni dove il movimento politico aveva presentato i propri candidati nel settembre 2020. Si trovano nelle province di Alessandria, Asti, Belluno, Bergamo, Campobasso, Catanzaro, Cosenza, Genova, Imperia, Isernia, Perugia, Pisa, Potenza, Savona, Vibo Valentia e Vicenza. Non è un caso che tutti i comuni abbiano una popolazione inferiore ai 1.000 abitanti perché in quel caso la normativa prevede una procedura semplificata per le candidature.
I finanzieri hanno interrogato un centinaio di candidati, eseguito perquisizioni in Veneto e in Puglia, e hanno acquisito documenti presso le commissioni circondariali elettorali dei 23 Comuni. Si tratterebbe di dichiarazioni “artatamente falsificate, in quanto gran parte dei soggetti ivi riportati era ignaro della propria iscrizione ovvero disconosceva del tutto il movimento politico e le relative sottoscrizioni”. I candidati risiedono principalmente nel Foggiano (San Paolo di Civitate, Torremaggiore e Cerignola) e nel Leccese (Ugento). “Hanno dichiarato di non essersi mai recati nelle province di Padova e di Rieti, luoghi in cui avrebbero apposto le proprie firme, sconfessando, peraltro, di conoscere i relativi pubblici ufficiali autenticatori”. Gli investigatori hanno scoperto che in occasione di precedenti consultazioni amministrative i candidati fossero già stati eletti, quali consiglieri comunali, in rappresentanza del movimento in questione, ma quando sono avvenute le autentiche di firma essi si trovavano in località del tutto incompatibili con quelle di esercizio della carica.
In qualche caso erano candidati anziani ultra-ottantenni o persone con forti disabilità fisiche, in località distanti migliaia di chilometri dalla propria residenza. Un effetto di questo turbine di liste è il fatto che dopo essere stati eletti a loro insaputa nei consigli comunali, alcuni cittadini hanno rifiutato la carica, con il rischio che l’amministrazione comunale venisse commissariata ed esponendo a rischio il sistema di elezione democratica. Lo scopo del marchingegno? Come è stato illustrato nella conferenza stampa dal procuratore di Rovigo, Carmelo Ruberto, e dal sostituto Ermindo Mammucci: “L’obiettivo principale era quello di presentare candidature in piccole realtà territoriali dove – approfittando della specifica normativa settoriale – vi era una buona probabilità di eleggere un proprio rappresentante per ottenere una visibilità sull’intero territorio nazionale, in modo da far accrescere il consenso per le successive consultazioni elettorali”.
L’ordinanza emessa ricostruisce molti passaggi interessanti. “Le liste di presentazione dei candidati erano dei fogli in formato A3 piegati a metà intestati al movimento con tanto di simbolo riportanti la lista dei nominativi dei candidati, a fianco di tutti i nomi vi era l’asserita sottoscrizione di ciascun candidato e apposta in calce l’autentica delle firme… nella maggioranza dei casi l’autenticazione avveniva per mano degli indagati, ma in alcuni casi anche da altri indagati, tutti in qualità di consiglieri comunali delle più disparate località”. La formula utilizzata era sempre la stessa: “Visto per l’autentica delle firme apposta in mia presenza dei signori presentatori/candidati nel numero di otto della cui identità io sono certo”. Si sono traditi anche con i WhatsApp. “Dall’ufficio del segretario nazionale parte un invito ai colleghi a collaborare per formare le liste di candidati in modo fraudolento, come era avvenuto l’anno precedente”. Dopo le trasmissioni di “Striscia”, il segretario, a cui veniva chiesto perché non replicasse, “rispondeva di non poterlo fare perché le firme erano tutte regolarmente false”.